di Federica Selis
È
stata davvero una pratica consolidata quella dell’uccisione dei padri
da parte del popolo nuragico? O si è trattato solo di una cattiva
interpretazione del termine che ha fuorviato del tutto un rituale che
aveva ben altro riscontro all’interno della società?
Si
dice fosse consuetudine, secondo un’usanza che oggi considereremmo
barbara, al tempo dei nuraghi, l’uccisione dei padri. Sebbene la nostra
concezione di giustizia al giorno d’oggi sia molto diversa da quella che
potevano avere ai loro tempi i nostri predecessori, non è detto che ciò
che realmente contemplava questo rito fosse da considerarsi del tutto
erroneo. Il luogo più noto in cui si dice fosse prassi officiare tale
pratica è Monte Baranta, in territorio di Olmedo: in teoria per via dei
ritrovamenti effettuati al suo interno, in realtà perché ancora non si è
riusciti ad attribuirgli una funzione ben precisa. A quanto ci è dato
sapere tramite l’archeologia ufficiale, la muraglia megalitica di Monte
Baranta, risalente al 2400 a.C., era strutturata in modo che l’anziano
genitore, accompagnato dal figlio erede, percorresse un corridoio che
conduceva al burrone e da lì, dopo essere stato stordito da cibi o
bevande avvelenate, venisse fatto precipitare nel vuoto per mano dello
stesso figlio, che rientrava poi all’interno della muraglia attraverso
un secondo corridoio, nella nuova veste di capofamiglia. A sostenere
l’esempio di Monte Baranta si aggiunge, nei pressi di Gairo, Sa
Babbaieca, che per via dell’interpretazione data al suo toponimo (babbai
= babbo; eca/ecca = sentiero, canalone) ha alimentato tante leggende
riguardanti proprio questo rituale. Si tratta in realtà di un sentiero
di montagna che termina in un profondo dirupo, e che secondo le leggende
faceva da sfondo proprio al sacrificio che il figlio compiva nei
confronti dell’anziano padre.
Non
si capisce in realtà perché un sentiero debba aver la funzione di
condurre ad un burrone, e la stessa domanda si pone nei confronti di uno
strano percorso che si diparte dal lato sudoccidentale del Nuraghe
Ardasai di Seui. In questo contesto, proprio come in quello di Monte
Baranta, ci troviamo di fronte a qualcosa che inequivocabilmente
proviene dall’epoca nuragica, avendo come punto di riferimento o di
partenza di questo tracciato proprio un nuraghe. Inquadrabile stavolta
cronologicamente tra il 1500 e il 1300 a.C., questa
può essere la testimonianza che, se di rituale si trattava, esso si sia
perpetrato per oltre mille anni. Al Nuraghe Ardasai ci troviamo di
fronte ad un sentiero lastricato, marginato da grossi macigni di roccia
affiorante, che dopo un percorso di una cinquantina di metri, termina in
una porta naturale i cui stipiti sono due massi affioranti di calcare.
Affacciandosi da quest’uscita ci si trova spaventosamente sul bordo di
un profondo precipizio. Diverse sono quindi le testimonianze
archeologiche che riconducono a questo rito; note in tutta la Sardegna
sono anche le leggende nate attorno al geronticidio. Sorge spontaneo
chiedersi se i Sardi nuragici svolgessero realmente questa pratica
crudele. Se così fosse, cosa poteva spingere un figlio a portare al
sacrificio estremo il proprio genitore seppure anziano? Al fine di
giustificare una simile crudeltà si è detto che un padre molto avanti
con l’età potesse diventare un peso per la famiglia e che quindi egli
stesso considerasse cosa giusta la propria eliminazione dalla società.
La Sardegna tende a preservare i suoi riti, seppur mascherandoli ai
giorni nostri con la tradizione, ma molto spesso essa non è altro che
una perpetuazione di generazione in generazione di usi e costumi
risalenti ad epoche remote. Ad Ovodda, piccolo centro della Barbagia di
Ollolai di circa 1650 abitanti, situato alle pendici del Monte Orohole,
il Mercoledì delle Ceneri (Mehuris de Lessia) ha il suo culmine
un carnevale molto particolare. All’imbrunire, gli abitanti del paese,
coi volti tinti di nero (Sos Intintos) e vestiti di stracci o comunque
di indumenti vecchi o stravaganti, accompagnano il fantoccio
protagonista del carnevale, il Don Conte, per le strade del paese.
Questo, ricoperto di stracci, il volto fatto di sughero o cartapesta,
una enorme pancia e genitali molto evidenti, viene sistemato sopra un
carretto trainato da un asino e portato in giro, accompagnato dagli
sbeffeggiamenti e dalla derisione degli intintos e del pubblico presente. Picchiato selvaggiamente, fintamente ubriacato ed infine incendiato, il fantoccio di Don Conte
termina la sua notte di condanna lanciato in fiamme da un precipizio
alla periferia del paese. Secondo la leggenda, il triste destino del
fantoccio, caricato a dorso di mulo, ubriacato, deriso, picchiato, dato
alle fiamme e infine gettato dal burrone, rappresenta la rievocazione di
un fatto realmente accaduto ad Ovodda: si narra che esistesse un tempo
un giovane aristocratico che governava il paese con pugno troppo duro, e
che venne punito dagli ovoddesi subendo lo stesso trattamento del Don Conte.
In poche parole il rito carnevalesco di Ovodda ripropone anno dopo anno
la ribellione della popolazione alla tirannia del padrone. In realtà,
molti sono i carnevali che in Sardegna ripropongono lo stesso rituale,
magari facendo assumere al fantoccio sembianze diverse, in alcuni casi
anche animalesche (vedi il carnevale di Lula, Su Battileddu), ma
in verità la riproposizione dell’atto è sempre la stessa: la vittima,
che viene picchiata, sbeffeggiata, stordita o ubriacata, viene infine
sacrificata. Diverse e le più disparate sono le interpretazioni date, ma
quello che a noi preme più far notare è la comunanza di alcuni
particolari che si ritrovano sia nelle leggende sarde sull’uccisione dei
vecchi sia nel rituale del carnevale di Ovodda. Primo fra tutti lo
stordimento: prima di venire sacrificata, la vittima viene ubriacata; in
secondo luogo, essa viene gettata da un dirupo. È curioso anche far
notare che il trasporto del fantoccio avviene grazie ad un asino, e non
ad un cavallo o tantomeno ad un toro, che invece accompagnano sempre le
processioni dei Santi. L’asino invece, fino ad alcuni decenni fa e in
alcuni paesi ancora tuttora, veniva utilizzato per mandar via un
governante poco gradito alla comunità: in quel caso, l’animale veniva
legato fuori dalla porta di casa del malcapitato come chiaro segnale che
era arrivato il momento di andarsene per lasciar posto ad altro
personaggio considerato più meritevole. Anche ad Ovodda è il governante /
tiranno che viene fatto fuori con l’uccisione. In tutta la Sardegna il
sacrificio del fantoccio carnevalesco chiude l’anno vecchio per dar vita
a qualcosa di nuovo e rigenerato. Proviamo ora a sovrapporre il
cerimoniale antico con quello moderno: e se l’interpretazione del
rituale, tramandato sino a noi come uccisione dei vecchifacesse
riferimento non ad un anziano componente della famiglia ma bensì a
qualcuno di vecchio, di obsoleto, o comunque che aveva terminato il suo
mandato all’interno della società? La nostra riflessione tende a questo
punto a condurci verso l’ipotesi che di sacrificio e di uccisione di un
vecchio si trattasse, ma che il vecchio in questione non fosse un
individuo qualsiasi ma il capo della comunità. Questo avveniva nella
particolare circostanza in cui la collettività decideva che era arrivato
il momento di eleggere un nuovo capo, a discapito di quello anziano,
che doveva subire l’antichissimo, ma accettato e riconosciuto da tutti,
supplizio dell’uccisione rituale, tramite avvelenamento e lancio giù dal
dirupo. Probabilmente questa doveva essere, in molti se non in tutti i
casi, una sorta di condanna magari di un individuo tiranno non più ben
accetto,che rendeva perciò necessaria la designazione di un nuovo erede
non inteso quindi come capofamiglia, ma come capo o governante della
città. Così avveniva nel 2400 a.C. a Monte Baranta, così nel 1500 a.C.
al Nuraghe Ardasai, così nel 2012 ad Ovodda: ma stavolta solo attraverso
la riproposizione meno crudele di un rituale carnascialesco.
L'interpretazione è molto interessante, viene in mente anche il suplizio che in molte società antiche era riservato al "Re Sacro".
RispondiEliminaSaluti, Il Mulino Del Tempo.
Ciao Mulino del Tempo!!!
RispondiEliminaHai ragione...viene spontaneo elaborare il supplizio del Re...prova a leggere qui e dimmi che ne pensi :http://www.scribd.com/doc/97805597/Storie-di-Re-e-Boes-di-Marcello-Cabriolu-in-%E2%80%9CLacanas%E2%80%9D-54-2012-p-74-Domusdejanas-editore buona lettura!!!;-D Marcello
Abbiamo visto la risposta solo adesso, grazie per il link, a presto.
RispondiEliminaIl Mulino (Fabrizio e Giovanna).
Molto molto interessante, la caccia rituale al Toro Sacro ha radici antichissime in tutto il mediterraneo, anche Platone nel Crizia dice: "Alcuni tori(forse 50) venivano lasciati liberi nel santuario di Poseidone, e i dieci re, rimasti soli, dopo aver rivolto al dio
RispondiEliminala preghiera di scegliere la vittima che gli fosse gradita, davano inizio alla caccia, armati non di armi di ferro, ma solo di
BASTONI E DI LACCI, il toro che riuscivano a catturare, lo conducevano davanti alla colonna e lì, sulla cima di questa, lo
sgozzavano....."
Sull'eliminazione del Re siamo completamente d'accordo con te, in Sardegna non siamo mai stati molto teneri con i sovrani che si sono macchiati di crimini, del resto anche negli ordinamenti Giudicali (ultima occasione in cui i Sardi si sono autodeterminati) esisteva il diritto al regicidio.
Avremo piacere di discutere su questo e su altri temi.
Grazie, Fabrizio e Giovanna.
Ciao Fabrizio e Giovanna, scusate tantissimo il ritardo nella risposta. Anche per noi è un enorme piacere discutere su questi temi. Quando volete, sia qui che su facebook. Grazie mille a voi per la vostra gentilezza! Marcello e Federica
RispondiEliminaGrazie a voi per la vostra disponibilità.
RispondiEliminaA presto, Fabrizio e Giovanna.
per noi è solo un piacere e se volete mettere un vostro contributo nel blog siete i benvenuti!!
RispondiEliminaCon piacere, anche noi abbiamo un piccolo blog, ricambiamo l'invito. Saremo felici di ospitarvi nel nostro spazio.
RispondiEliminaA presto.