lunedì 10 dicembre 2012

L'ancestrale rito delle maschere sarde


di Federica Selis


Che il Carnevale abbia inizio!


 Il rintocco delle campane della chiesa annuncia l’uscita della processione. È il 16 gennaio, la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate, ma la messa verrà celebrata questa sera. S’Ogulone (l’enorme falò) arde già da alcune ore su un lato della piazza, mentre il centro è lasciato libero, perché quando arriverà la notte la gente ballerà.  Il lamentoso corteo discende lungo il breve tragitto seguendo il Cristo in croce, in un lento e monotono salmodiare. Il sacerdote compirà i tre giri attorno al fuoco e benedirà le fiamme, mentre la statua di Sant’Antonio procede alta sopra tutti, il volto ligneo illuminato dalle fiamme in contrapposizione con le grandi maschere, che da quelle stesse fiamme stanno per essere divorate. Intanto il lungo corteo di donne in abiti scuri lo segue senza mai smettere di pregare e gli astanti si fanno il segno della croce. La sera è calata, e la processione non è ancora rientrata in chiesa che già si ode in lontananza il rumore dei campanacci. La processione dei fedeli si disperde nelle strade in attesa del rito propiziatorio vero e proprio, quello dei padri e dei nonni, quello che la gente di questo piccolo centro della Barbagia ancora porta con sè. E lì, ancora lontani, loro, i Merdùles, sono in procinto di partire: il Boe scalpita mentre il Merdùle tenta di tenere a freno la sua trepidante irruenza. La tensione dell’attesa è palpabile nei volti degli spettatori che attendono di godere del loro spettacolo. E finalmente eccoli muoversi e iniziare la sfilata, scendere, calare, a passo cadenzato e leggero, fino alla piazza principale, fino al fuoco dedicato al Santo che salvò la terra dal congelamento. Arrivano finalmente i Merdùles e compiono i tre giri in senso antiorario attorno al grande falò, gli stessi tre giri che poco prima avevano percorso la Santa Croce e Sant’Antonio con in mano il bastone di ferula che gli fu utile per riportare il fuoco sulla terra. Il rumore dei pesanti campanacci dei Boes, il passo greve e affaticato dei tristi Merdùles, l’ironico terrore causato dalla presenza della Filonzana, la magia dell’atmosfera creata da questi suoni unita alla gioia della festa ora sostituiscono il calmo e monotono incedere della processione: è questo quello che tutti attendevano ed eccolo finalmente iniziare. È la sera del 16 gennaio, è la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate ed ecco, finalmente: il carnevale è iniziato!

Un affascinante viaggio nel favoloso mondo arcaico: il rituale

Il carnevale sardo è un rituale ancestrale che si ripercorre come un brivido che scuote da palmo a palmo le zone più interne, recondite e profonde di questo cuore di Sardegna. La Barbagia, ancora tanto sconosciuta e segreta da essere riuscita a conservare e tramandare i suoi gesti e i suoi rituali, trasforma le sue leggende in emozionanti situazioni reali. Da quando ad Ottana la prima uscita dei Merdùles dà inizio al carnevale, in tutta questa parte così misteriosa ed arcana della Sardegna è possibile osservare gli antichi riti farsi di nuovo realtà. A Mamoiada l’inizio del carnevale è celebrato dall’uscita dei Mamuthones. Dal 1984, anno in cui la Pro Loco riuscì a ridare vigore a questa tradizione, ogni rione dà mostra di sé in quella che potrebbe sembrare una competizione per il falò più bello. Tutti gli abitanti di Mamoiada, nessuno escluso, si preparano a dare vita al rito che più di tutti ha reso celebre questo angolo di Barbagia. I Mamuthones saltano, danzano attorno ai grandi fuochi, che possono anche raggiungere il numero di 40, accompagnati dal suono cadenzato e costante dei campanacci che portano sulla schiena. Sono le loro maschere mute, scure, a dare quel sapore di arcaico e misterioso a questa festa, perché di festa si tratta, sebbene sia la trepidanza delle fiamme a scandirne il ritmo anzichè il chiasso di una musica assordante. Solo la benedizione del prete, la sera prima, durante quello che viene chiamato “Su Pesperu”, anticipa questo rito arcano, mentre l’uomo di chiesa benedice le fiamme, prelevando da esse le prime braci e facendo i tre giri di rito. Ma il 17 gennaio il fuoco è onorato solo dal passaggio di queste maschere ancestrali, che si riprendono così il loro ruolo, scacciando con il loro assordante frastuono gli spiriti malevoli, e rinnovando ancora una volta l’antico rito della fertilità, ora mascherato sotto il nome di carnevale.

Carnevale come simbolo di sacrificio

Riproposizione di riti propiziatori e millenari, il carnevale in Sardegna non ha nulla a che vedere con la sarcastica ed allegra esuberanza dei carnevali forse più noti (Viareggio, Cento, Rio de Janeiro). Il carnevale sardo si libera della semplice accezione di festa allegorica che caratterizza questi carnasciali e ritrova i suoi gesti e suoi rituali in antiche e recondite tradizioni ancestrali. Chi da sempre porta avanti questa tradizione conosce bene il significato della riproposizione del rito, che niente ha a che fare con la stravaganza dei costumi del resto della penisola. La sola riproposizione del nome stesso in lingua sarda, “Carrasegare” o “Carrasecare” o “Carrasegai”, riconduce ad un significato molto differente dalla parola italiana “Carnevale”. “Carra – segare”, da alcuni interpretato come “carne da tagliare”, ricorda il sacrificio che nel carnevale sardo è spesso richiesto e che come tale deve avere una vittima, o un “capro espiatorio”, che dovrà sottostare alla fine scontata del rituale.

Un pericolo per la Chiesa

L’arrivo del capodanno sardo coincideva, almeno fino al secolo scorso, con l’inizio dell’annata agraria. Si celebrava in settembre, mese in cui il grande proprietario terriero, Su Donnu, chiudeva i contratti con i suoi subalterni. Era questo il momento in cui tutti i riti propiziatori legati alla fertilità dei campi dovevano avere luogo, ed era proprio in quest’occasione che si aveva a Mamoiada la prima uscita dei Mamuthones. Più tardi, l’evento dell’uscita della maschera era stato rimandato al 26 Dicembre, giorno di Santo Stefano, fino a recedere al momento in cui “sa prima essia” (la prima sortita) ha iniziato a coincidere con la data odierna del 17 Gennaio. Ma perché è accaduto questo? Come  si è detto l’uscita dei Mamuthones ha sempre coinciso con la celebrazione dei riti propiziatori per l’annata agraria. Alcuni anziani mamoiadini narrano che veniva richiamata l’uscita delle maschere in qualunque momento dell’anno se ne ritenesse utile l’azione. Era il frastuono dei loro campanacci che avrebbe scosso i cieli e fatto arrivare la pioggia, e insieme avrebbe allontanato gli spiriti maligni: simbolo di fertilità ma anche di buon auspicio e fortuna, quindi. Non si ha invece notizia sull’uscita anticipata dei Merdùles, se non per il ricordo di alcuni anziani relativo alla ricorrenza della luna nuova d’inverno (il 21 Dicembre circa). Tuttavia, non è difficile credere che anche ad Ottana le maschere pellite, soprattutto se Boes, venissero richiamate in casi di necessità della comunità. Non si faceva ricorso alla chiesa, quindi, e la gente credeva ancora nei riti propiziatori pagani. Ma erano davvero pagani questi riti? Fino alla venuta del cristianesimo in realtà essi erano la rappresentazione della vera religione, quella esistita da sempre in Sardegna, divenuta pagana solo dopo l’avvento della cristianità. Ma nonostante la forte repressione della Chiesa, la caccia alle streghe operata durante l’inquisizione e il pesante proselitismo compiuto nell’isola, il clero ha sempre dovuto combattere per predominare sulle credenze popolari. Di fatto la repressione operata dai gesuiti non ha mai avuto gran esito in Sardegna e molto spesso il Vaticano si è trovato costretto a minacciare di scomunica i prelati operanti sull’isola, accusati di troppa debolezza per frapporsi al volere della gente. In vari concilii vaticani, fino addirittura alla fine della seconda metà del secolo scorso, la Chiesa centrale ancora spronava il clero sardo a non sottomettersi ai rituali di magia operati dalla popolazione, poiché essa ancora si ostinava a praticarli. Tuttavia, nonostante le diverse e sempre più pressanti ammonizioni da parte del Pontefice e la forte ingerenza dei gesuiti nell’isola, la credenza popolare era talmente radicata e potente, forte della sua millenaria storia, da non aver mai permesso alla religione cristiana di vincere, tanto da costringerla ad integrarsi con questa e farne propri alcuni riti pur di ingraziarsi la fede della popolazione. Nel 1700 il padre gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo, in compagnia del fedele accompagnatore, il neonelese Bonaventura Licheri – la cui identità non è del tutto comprovata –, percorse tutta la Sardegna con l’intenzione di portare la cristianità nell’isola ancora profondamente pagana. Dal 1769 al 1775 decise di dedicarsi in modo particolare alle zone dell’interno, da Ortueri ad Ottana, passando per Samugheo, Mamoiada, Austis ed altre località del Sassarese, in cui si diceva si praticassero ancora culti pagani “in numen santu”, ossia nel nome del Signore. In queste località si dice egli giungesse in periodo carnevalesco, sorprendendo gli abitanti nella professione del rituale in maschera. Le sue prediche, rimaste nella memoria popolare per via della loro violenza, prevedevano la minaccia di gravi pene fino alla scomunica definitiva. In un tempo in cui le masse popolari non erano immuni dalla superstizione la parola di padre Vassallo pareva avere grande potere. Si ipotizza che con molta probabilità non fu tanto ciò che disse quanto i suoi metodi coercitivi ad imporre obbedienza nella gente, convincendola alla rinuncia di riti considerati demoniaci. Fu così che, secondo ciò che si riporta, molti travestimenti mascherati dell’isola furono abbandonati. Non si spiega però perché in alcuni paesi, quali Ottana e Mamoiada, la tradizione del rituale carnevalesco con Merdùles e Mamuthones si sia preservata nel tempo, al contrario di quelli che invece abbandonarono del tutto quest’uso. A ragion veduta si può affermare che, sebbene l’abbandono definitivo non sia mai avvenuto in questi paesi, appaia una sorta di tacito compromesso, stilato tra Chiesa e popolo, il fatto che l’uscita delle maschere avvenga al giorno d’oggi in una data precisa, quella del 16 gennaio, come già detto. Compromesso che vede la cerimonia cristiana accompagnare e mischiarsi al rituale arcaico, compreso di tutti i suoi elementi – accensione del falò, presenza delle maschere pellite, soprattutto dei campanacci, giro delle maschere attorno al fuoco, ballo tondo -, ed il sacerdote cristiano benedire con acqua e braci un fuoco che, sebbene porti nome di santo, in realtà è un chiaro segno della vittoria del paganesimo, o meglio della vecchia religione, su quella nuova.

Maschere antiche o pura invenzione?

 
Come si è evinto finora, nel “Carrasegare” (il carnevale) isolano, il mascheramento non è fine a sé stesso, ma teso a riprodurre il simbolo perenne di qualcosa di radicato nella tradizione culturale dei  Sardi. Esso si ripropone specificatamente in poche località ma è patrimonio di tutta l’Isola, tanto che diverse regioni della Sardegna, quali le Barbagie o il confine oristanese con queste (come anche del Cagliaritano), hanno, da alcuni anni a questa parte, sentito il desiderio di ripristinare una propria maschera, in alcuni casi forse già esistente ma ormai dimenticata, ed un proprio rituale attinente a questa. L’autenticità del mascheramento è dato dalla tradizione di riproporre il rituale da sempre, fino da epoche in cui il ricordo non riesca ad arrivare, e prevede il fatto che questo non sia mai stato abbandonato. Tuttavia, sembra assai strano che, vista l’importanza rituale e propiziatoria che queste maschere avevano nel passato, esistessero solo in tre paesi della Sardegna (Ottana, Mamoiada, Orotelli). Fatto sta che in tantissime località gli anziani conservano ancora il ricordo di manifestazioni carnevalesche con maschere zoomorfe con cui usavano divertirsi in gioventù. Tuttavia ciò che al giorno d’oggi si vede spopolare lungo le strade di alcuni paesi non sempre trova completa attinenza con i ricordi degli anziani, aggiungendo di fatto elementi e atteggiamenti atti ad attirare l’attenzione di un pubblico – soprattutto se poco esperto – facilmente suggestionabile da atti selvaggi e maschere che sembrano far a gara tra loro per apparire sempre più mostruose. Perso quasi del tutto il significato vero del rituale proposto da questi mascheramenti, al giorno d’oggi si assiste ad un fertile rifiorire di maschere più o meno autentiche. Non rifacendosi a tradizioni ben precise e usuali da sempre, alcune di queste, ben lungi dalla bellezza e dall’esaltazione emotiva concessa dalle parenti più famose, rischiano di apparire a volte fuori contesto. Spesso, ma non sempre, infatti, la riproposizione di un travestimento dimenticato non tende alla preservazione del rituale antico, ma bensì all’impressione che le gesta sempre più straordinarie di queste maschere incutono nel visitatore. Il danno che ne consegue non è da poco, in quanto il rischio è quello di dare, ad uno spettatore poco esperto, l’idea piuttosto errata di culti mai realmente esistiti in Sardegna. Per alcune di loro, lontane dal semplice ricordo degli anziani, la ricreazione si basa essenzialmente sulle poesie di quel Bonaventura Licheri di cui si è parlato precedentemente, che durante i suoi sopralluoghi in compagnia del padre Vassallo aveva l’abitudine di descrivere nel dettaglio sia il rituale che i travestimenti utilizzati. Tuttavia la reale autenticità sia di questi scritti che del loro autore è ancora da definire e lo studio sulle maschere antiche è ancora lontano dall’essere concluso.