Ottana, Mamoiada, Orotelli
di Federica Selis
OTTANA
Definite generalmente sotto il
termine generico “Merdùles”, le maschere ottanesi si dividono in realtà in tre
tipologie principali: su Merdùle, su Boe - a cui possono talvolta aggiungersi
le figure de su Porcu, su Crabolu, su Molente - e sa Filonzana. La Filonzana è
sicuramente quella che per tipologia e costume si discosta maggiormente dalle
prime due e ad un primo sguardo non sembrerebbe avere nulla a che fare con il
rito carnevalesco riproposto dal Boe e dal Merdùle. In realtà non è così.
Questa figura di vecchina, di nero vestita, piccola e gobba, dall’andatura
ciondolante e sgraziata e il capo coperto da un fazzoletto nero, una maschera
di pero nero a coprire il viso e indosso l’abbigliamento tipico delle vedove
sarde (gonna, blusa e scialle tutto rigorosamente scuro) è forse la figura più
emblematica e misteriosa di tutto il carnevale ottanese. Rigorosamente
interpretata da un maschio, filatrice del filo della vita, tiene con una mano
il fuso e appese al collo un paio di forbici, con le quali minaccia di recidere
il filato (1). Apparentemente fragile ed innocua, è in realtà una figura molto
temuta per la sua accezione di portatrice di sventura: se infatti tra la folla
la sua attenzione è catturata da una persona che non le aggrada, ella può
avvicinarsi e tagliare il filo, in segno di maledizione e sfortuna. Sempre
ultima nella sfilata dei Merdùles, segue il corteo con andatura lenta e goffa
senza smettere mai di filare. La sua figura riporta alla mente quella dell’accabadora,
ovvero colei che in casi di estrema necessità aveva il compito di porre fine
alla vita di coloro che si trascinavano moribondi ed agonizzanti senza tuttavia
riuscire a morire. Era questo il momento in cui si richiedeva l’intervento di
questa anziana donna, figura realmente esistita in Sardegna ma divenuta quasi
leggendaria a causa del suo ruolo di cui nessuno osa parlare (2).
Le due figure fondamentali e più
rappresentative del carnevale ottanese rimangono comunque il Boe e il Merdùle.
Entrambe abbigliate con una voluminosa pelle di pecora bianca portata al
rovescio - ovvero col pelo di fuori -, pantaloni neri di velluto, fazzoletto
nero sul capo e cosinzos (3), si distinguono tra loro prima di tutto per la
maschera facciale e in secondo luogo per alcuni elementi fondamentali
dell’abbigliamento. Il Merdùle rappresenta infatti l’uomo, e nelle forme quasi
disumane e ghignanti della sua maschera lignea è riportata tutta la fatica del
lavoro e della vita del pastore. Sulle spalle porta “sa taschedda”, una borsa
di pelle marrone conciata, che veniva utilizzata un tempo dai pastori per
contenere le provviste. Cammina faticosamente tenendosi al bastone (su mazzuccu) ed emettendo strani e
lugubri lamenti.
Maschera più complessa nel suo
significato più recondito, in quanto il suo ruolo reale si è perso attraverso i
secoli, il Boe è dotato di una maschera facciale dai chiari lineamenti bovini
munita di corna. Intagliata all’altezza delle guance con delle foglie, riporta
sulla fronte uno strano simbolo a forma di stella, il cui significato appare
tuttora poco chiaro. Caratteristica della maschera sono gli occhi, a mandorla e
sempre all’insù e il muso pronunciato, a ricordare in tutti i suoi aspetti un
bovide. Tramandata di generazione in generazione, la lunghezza delle corna è in
media sui 15/20 centimetri, ma ormai può variare a seconda dei gusti di chi la
commissiona. A tracolla su una spalla, appeso ad una larga cinghia di cuoio, il
Boe porta un pesante grappolo di campanacci di diverse dimensioni a cui si
aggiungono delle piccole campane che fa suonare di tanto in tanto, per un peso totale
che si aggira attorno ai 30 - 35 chili circa, ma che può variare a seconda di quanto
ognuno sia in grado di portare addosso. Ciò rende questo travestimento
particolarmente sacrificante e faticoso per chi lo indossa, anche tenendo conto
del fatto che gli ottanesi usano abituare il corpo al peso dei campanacci sin dalla
più tenera età. Dal carattere forte e ribelle il Boe è tenuto legato in vita
con “sa soca” (4), attraverso la quale il Merdùle gli impedisce di allontanarsi.
Immagini
tratte dal filmato “I Merdules di Ottana” di Fiorenzo Serra, 1957, Ilisso
Edizioni S.r.l.
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In un tempo non molto lontano,
almeno fino a pochi decenni fa, era raro vedere Boes e Merdùles sfilare con
indosso le pelli di pecora: sebbene tutti usassero portare la maschera lignea
sul viso, in realtà il mascheramento prevedeva semplici abiti da lavoro,
velluti, tute o vecchi abiti casalinghi. Tuttora alcuni Boes, per le uscite in
paese, scelgono di non indossare le pelli e sfilare con eleganti completi in
velluto scuro, tipici del vestiario da festa dei Sardi attuali, o di portare i
campanacci direttamente sulla camicia bianca.
Immagine
tratta dal filmato “I Merdules di Ottana” di Fiorenzo Serra, 1957, Ilisso
Edizioni S.r.l.
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Ultimo, ma non meno importante,
elemento che contraddistingue il carnevale ottanese è “s’orriu”, che viene portato
in sfilata dall’ultimo Merdùle che chiude il corteo, seguito dalla Filonzana.
Si tratta di un cilindro di sughero ricoperto di pelle conciata che al suo
interno ha una lunga cordicella che viene sfregata dalle mani, appositamente
unte di grasso, del Merdùle, in modo da produrre un suono cupo e basso. Questo
rumore disturba e spaventa l’animale (il Boe) che in questo modo viene reso più
docile e remissivo ai richiami del Merdùle, suo padrone.
Quello di
Ottana è considerato l’unico carnevale spontaneo della Sardegna. Dopo la prima
discesa, ordinata e disciplinata, e i tre giri attorno al fuoco di
Sant’Antonio, le maschere si spargono libere mischiandosi le une alle altre in
una confusione di maschere e pubblico, in modo che l’interazione con esse
diventa da subito possibile per lo spettatore. Durante tutto l’arco del
carnevale, soprattutto nei fine settimana,
è possibile incontrare, lungo le strade del paese, ottanesi vestiti a
merdùle che, da soli o in compagnia, irrompono accompagnati dal frastuono
assordante dei campanacci. L'ultima domenica di carnevale tutti i gruppi riuniti
sfilano e si esibiscono lungo le strade più importanti del paese, disperdendosi
poi nella piazza principale.
Può capitare
di incontrare i Boes in file di due o tre affiancati e tenuti per mano, a
simboleggiare i buoi aggiogati, oppure di incontrare un Boe solo, senza Merdùle
e libero dal laccio della soca, che improvvisamente si lancia contro la folla,
spaventandola: esso interpreta il toro, più violento e ribelle del bue
aggiogato. Uno o più Merdùles tengono “assocati” i propri Boes, che di tanto in
tanto, senza preavviso si fermano, si rivoltano contro il padrone e
ribellandosi si gettano a terra, scalciando.
È questo il
momento più importante del carnevale ottanese, quello in cui l’atto e la
pantomima rivivono. Quando questo accade è dovere del Merdùle inginocchiarsi
accanto al proprio animale ribelle e spronarlo a rimettersi in piedi, talvolta
con costrizione talvolta con una carezza sul muso.
Se il Boe
ribelle ancora non si lascia convincere a rialzarsi ecco che interviene la
Filonzana, che fermatasi al fianco dell’animale gli intima di obbedire con la
minaccia di recidere il filo. Ecco che allora il Boe, convinto, si rimette in
piedi, con l’immane fatica di colui che porta addosso il pesante grappolo di
grossi campanacci.
Una delle più commoventi e
coinvolgenti caratteristiche del carnevale ottanese rimane il ballo tondo che
si svolge nella piazza principale alla fine della sfilata delle maschere e che
vede coinvolte centinaia di persone tra ottanesi, turisti e semplici
spettatori.
MAMOIADA
A Mamoiada si svolge invece il
carnevale, se non più importante almeno più famoso, della Sardegna. Esso vede
protagonisti i Mamuthones, maschere scure dall’aspetto luttuoso e cupo che
sfilano muti in due file ordinate e parallele per le vie del paese, indossando
una pesante pelle di pecora nera sopra un completo di velluto marrone. Hanno il
capo avvolto da un fazzoletto femminile sempre marrone che copre “su bonette” (5),
mentre il viso è nascosto dalla maschera nera dagli accentuati e grossolani
lineamenti umani.
Portano sulla schiena, strettamente allacciato al petto con robuste cinghie di cuoio, un grappolo di campanacci del peso totale di circa 15 - 25 chili, disposti in ordine discendente di grandezza. Sull’addome tengono invece appese alcune piccole campane.
Portano sulla schiena, strettamente allacciato al petto con robuste cinghie di cuoio, un grappolo di campanacci del peso totale di circa 15 - 25 chili, disposti in ordine discendente di grandezza. Sull’addome tengono invece appese alcune piccole campane.
Sfilano sempre in numero di
dodici o di multipli di dodici e vengono seguiti e guidati, durante il loro
cammino, da otto Issohadores dal volto coperto da una maschera bianca,
abbigliati con una giubba rossa, camicia bianca, pantaloni bianchi infilati
nelle “crazas” nere (6) e uno scialle del costume femminile, bianco o nero,
ricamato a fiorami e annodato su un fianco a mò di fusciacca. Sul capo portano
la “berritta” nera (7), trattenuta da un fazzoletto annodato in cima alla testa.
A tracolla indossano una sonagliera per cavalli.
Gli Issohadores, oltre a seguire
per tutta la sfilata i Mamuthones, sono dotati di una lunga “soha” (da qui il
loro nome) di fune, che usano lanciare a mò di lazo per cogliere di sorpresa
giovani fanciulle tra gli spettatori.
Al contrario della spontaneità e
della vivacità del carnevale di Ottana quello di Mamoiada è un corteo triste,
ordinato e le maschere non hanno nessun contatto con il pubblico presente,
limitandosi ad una sfilata per le vie del paese.
Il loro passo è cadenzato in
una sorta di ritmica danza con i piedi che si muovono contrapposti alle spalle
tramite lo slancio di un piede e lo scatto della spalla opposta, fino a che,
dopo un certo numero di passi, all’unisono, compiono tre piccoli saltelli,
producendo un gran fracasso di campanacci.
Esattamente come accaduto nel carnevale ottanese, anche la
maschera mamoiadina ha subito col tempo delle modifiche nel vestiario. Proprio
come nel vicino paese barbaricino, fino a qualche decennio fa nemmeno a
Mamoiada tutti mettevano le pelli, e i figuranti indossavano sotto i campanacci
solo l’abito di velluto o un cappotto scuro e sul capo portavano un bonette.
Solo alcuni indossavano le pelli, ma anche ad un occhio poco esperto i due
travestimenti, vecchio e nuovo, possono apparire diversi. Anche gli Issohadores
indossavano, al posto delle braghe bianche sopra le "crazas", dei semplici
pantaloni neri. Ciò non toglie il fatto che molto probabilmente la scelta di
non indossare l’imgombrante abbigliamento pellito risultasse più qualcosa di personale
dovuto al momento storico attraversato (parliamo del dopoguerra), in cui le
ricchezze erano molto limitate, che non una vera e propria necessità del rito,
in quanto un abbigliamento pellito sembra molto più confacente all’antichità
del mascheramento di quanto non possa esserlo l’abito di velluto.
Immagini
tratte dal filmato “Mamuthones e Issohadores di Mamoiada in sfilata:
documentario fine anni ‘50’”.
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Immagini
tratte dal filmato “Mamuthones e Issohadores di Mamoiada in sfilata:
documentario fine anni ‘50’”.
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OROTELLI
Col cappuccio de “su gabbanu” (8)
di orbace nera calato sugli occhi e chiuso stretto al collo, il viso tinto di
nera fuliggine di sughero bruciato e una fila di piccole campanelle a tracolla,
trainando un aratro, ecco che i Thurpos (i ciechi) irrompono nella scena del
carnevale di Orotelli.
Abbigliati come un tempo si abbigliavano i pastori, col
cappuccio calato sul viso come usavano i vedovi sardi fino a pochissimi decenni
orsono, queste maschere carnevalesche impersonano, come ad Ottana, la fatica
del bovaro che tiene a bada i due buoi aggiogati. Quasi impossibile distinguere
le due figure, bovaro e bovini appunto, perché sia nel nome che
nell’abbigliamento nulla li distingue, se non che i due Thurpos, sempre in
coppia, trainano l’aratro, mentre il Thurpo bovaro rimane dietro l’attrezzo.
La
loro andatura è veloce e ciondolante, ed il bovaro porta con sé una cassetta di
legno da cui di tanto in tanto prende del grano da tirare sulla folla di spettatori
in segno di fertilità e buona fortuna. Anche nel carnevale orotellese è
presente la figura del toro, un Thurpo identico agli altri, sciolto dal giogo,
che scorrazza libero e si introduce in mezzo al pubblico, cogliendolo spesso di
sorpresa.
I Kukeri di Bulgaria |
Introdotta tra le
maschere sarde più antiche dopo la riscoperta, avvenuta nel 1978, ad opera
dell’insegnante Giovanna Pala Sirca, la maschera orotellese trova delle
somiglianze nella pantomima bulgara dei Kukeri, che addirittura talvolta, oltre
a trainare l’aratro in coppia come buoi aggiogati, vestono una sorta di
mantello marrone chiaro con il cappuccio a coprire il viso.
Oltre ai Thurpos, nel 1993 entrò
a far parte delle maschere di Orotelli “s’Eritaju”, dopo lo studio approfondito
del poeta scrittore Larentu Pusceddu. Con indosso un saio bianco, il cappuccio
sul capo e una maschera di tessuto rossa a coprire il viso, essa vaga alla
ricerca di giovani donne, inseguendole per pungerle sul seno con gli aculei dei
ricci che porta appesi al collo, inseriti all’interno di tappi di sughero: è
questo, con molta evidenza, un rito propiziatorio per la fertilità. Ritenuta
una maschera “pericolosa”, non sempre accompagna i Thurpos durante le loro
sfilate, soprattutto se fuori dal paese. Ostracizzata per l’utilizzo della
pelle di riccio, alcuni anni fa il comune decise che si sarebbero potute
utilizzare solo le pelli di animali trovati già morti, in modo da evitare che
per la creazione della maschera si causassero inutili uccisioni di ricci
selvatici.
Federica Selis
( 1) Negli
ultimi tempi, ad Ottana, è possibile veder sfilare un secondo tipo di
filonzana, incinta, che proprio per il suo essere gravida porta in sé un
significato diverso dalla prima: essa, infatti, non può togliere la vita ma
donarla, tanto che nel suo mascheramento sono del tutto assenti le forbici.
Questo può in realtà apparire a prima vista un controsenso, in quanto la
Filonzana è principalmente anche la figura di una vedova, che nel mondo arcaico
sardo non sarebbe stata affatto accettata come donna gravida.
( 2) Per
saperne di più sulla misteriosa figura de s’Accabadora http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/07/saccabadora-viveva-vicino-casa-mia.html.
( 3) Scarponi.
( 4) Una
lunga fune un tempo fatta di cuoio ora sostituita in taluni casi con una
normale corda.
( 5) Il
cappello sardo da uomo.
( 6) Le
ghette del costume sardo, che coprono le scarpe e salgono su fino al ginocchio.
( 7) Copricapo
del costume sardo.
( 8) Un
cappotto corto al ginocchio.
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