lunedì 20 agosto 2012

Maschere di Sardegna:

Ottana, Mamoiada, Orotelli 
di Federica Selis

Il carnevale in Sardegna prende avvio ufficialmente il 16 Gennaio – vigilia della festa di Sant’Antonio Abate - ad Ottana con l’accensione dell’unico grande falò del paese e la prima uscita delle maschere tipiche, Sos Merdùles. Il giorno dopo la stessa cosa avviene a Mamoiada – dove però i fuochi (anche 40) si distribuiscono in tutta la cittadina – con la prima uscita dei Mamuthones.

OTTANA
Definite generalmente sotto il termine generico “Merdùles”, le maschere ottanesi si dividono in realtà in tre tipologie principali: su Merdùle, su Boe - a cui possono talvolta aggiungersi le figure de su Porcu, su Crabolu, su Molente - e sa Filonzana. La Filonzana è sicuramente quella che per tipologia e costume si discosta maggiormente dalle prime due e ad un primo sguardo non sembrerebbe avere nulla a che fare con il rito carnevalesco riproposto dal Boe e dal Merdùle. In realtà non è così. Questa figura di vecchina, di nero vestita, piccola e gobba, dall’andatura ciondolante e sgraziata e il capo coperto da un fazzoletto nero, una maschera di pero nero a coprire il viso e indosso l’abbigliamento tipico delle vedove sarde (gonna, blusa e scialle tutto rigorosamente scuro) è forse la figura più emblematica e misteriosa di tutto il carnevale ottanese. Rigorosamente interpretata da un maschio, filatrice del filo della vita, tiene con una mano il fuso e appese al collo un paio di forbici, con le quali minaccia di recidere il filato (1). Apparentemente fragile ed innocua, è in realtà una figura molto temuta per la sua accezione di portatrice di sventura: se infatti tra la folla la sua attenzione è catturata da una persona che non le aggrada, ella può avvicinarsi e tagliare il filo, in segno di maledizione e sfortuna. Sempre ultima nella sfilata dei Merdùles, segue il corteo con andatura lenta e goffa senza smettere mai di filare. La sua figura riporta alla mente quella dell’accabadora, ovvero colei che in casi di estrema necessità aveva il compito di porre fine alla vita di coloro che si trascinavano moribondi ed agonizzanti senza tuttavia riuscire a morire. Era questo il momento in cui si richiedeva l’intervento di questa anziana donna, figura realmente esistita in Sardegna ma divenuta quasi leggendaria a causa del suo ruolo di cui nessuno osa parlare (2).



Le due figure fondamentali e più rappresentative del carnevale ottanese rimangono comunque il Boe e il Merdùle. Entrambe abbigliate con una voluminosa pelle di pecora bianca portata al rovescio - ovvero col pelo di fuori -, pantaloni neri di velluto, fazzoletto nero sul capo e cosinzos (3), si distinguono tra loro prima di tutto per la maschera facciale e in secondo luogo per alcuni elementi fondamentali dell’abbigliamento. Il Merdùle rappresenta infatti l’uomo, e nelle forme quasi disumane e ghignanti della sua maschera lignea è riportata tutta la fatica del lavoro e della vita del pastore. Sulle spalle porta “sa taschedda”, una borsa di pelle marrone conciata, che veniva utilizzata un tempo dai pastori per contenere le provviste. Cammina faticosamente tenendosi al bastone (su mazzuccu) ed emettendo strani e lugubri lamenti.
Maschera più complessa nel suo significato più recondito, in quanto il suo ruolo reale si è perso attraverso i secoli, il Boe è dotato di una maschera facciale dai chiari lineamenti bovini munita di corna. Intagliata all’altezza delle guance con delle foglie, riporta sulla fronte uno strano simbolo a forma di stella, il cui significato appare tuttora poco chiaro. Caratteristica della maschera sono gli occhi, a mandorla e sempre all’insù e il muso pronunciato, a ricordare in tutti i suoi aspetti un bovide. Tramandata di generazione in generazione, la lunghezza delle corna è in media sui 15/20 centimetri, ma ormai può variare a seconda dei gusti di chi la commissiona. A tracolla su una spalla, appeso ad una larga cinghia di cuoio, il Boe porta un pesante grappolo di campanacci di diverse dimensioni a cui si aggiungono delle piccole campane che fa suonare di tanto in tanto, per un peso totale che si aggira attorno ai 30 - 35 chili circa, ma che può variare a seconda di quanto ognuno sia in grado di portare addosso. Ciò rende questo travestimento particolarmente sacrificante e faticoso per chi lo indossa, anche tenendo conto del fatto che gli ottanesi usano abituare il corpo al peso dei campanacci sin dalla più tenera età. Dal carattere forte e ribelle il Boe è tenuto legato in vita con “sa soca” (4), attraverso la quale il Merdùle gli impedisce di allontanarsi.


             Immagini tratte dal filmato “I Merdules di Ottana” di Fiorenzo Serra, 1957, Ilisso Edizioni S.r.l.
In un tempo non molto lontano, almeno fino a pochi decenni fa, era raro vedere Boes e Merdùles sfilare con indosso le pelli di pecora: sebbene tutti usassero portare la maschera lignea sul viso, in realtà il mascheramento prevedeva semplici abiti da lavoro, velluti, tute o vecchi abiti casalinghi. Tuttora alcuni Boes, per le uscite in paese, scelgono di non indossare le pelli e sfilare con eleganti completi in velluto scuro, tipici del vestiario da festa dei Sardi attuali, o di portare i campanacci direttamente sulla camicia bianca.

             Immagine tratta dal filmato “I Merdules di Ottana” di Fiorenzo Serra, 1957, Ilisso Edizioni S.r.l.
             Immagine tratta dal filmato “I Merdules di Ottana” di Fiorenzo Serra, 1957, Ilisso Edizioni S.r.l.















 Ultimo, ma non meno importante, elemento che contraddistingue il carnevale ottanese è “s’orriu”, che viene portato in sfilata dall’ultimo Merdùle che chiude il corteo, seguito dalla Filonzana. Si tratta di un cilindro di sughero ricoperto di pelle conciata che al suo interno ha una lunga cordicella che viene sfregata dalle mani, appositamente unte di grasso, del Merdùle, in modo da produrre un suono cupo e basso. Questo rumore disturba e spaventa l’animale (il Boe) che in questo modo viene reso più docile e remissivo ai richiami del Merdùle, suo padrone.


Quello di Ottana è considerato l’unico carnevale spontaneo della Sardegna. Dopo la prima discesa, ordinata e disciplinata, e i tre giri attorno al fuoco di Sant’Antonio, le maschere si spargono libere mischiandosi le une alle altre in una confusione di maschere e pubblico, in modo che l’interazione con esse diventa da subito possibile per lo spettatore. Durante tutto l’arco del carnevale, soprattutto nei fine settimana,  è possibile incontrare, lungo le strade del paese, ottanesi vestiti a merdùle che, da soli o in compagnia, irrompono accompagnati dal frastuono assordante dei campanacci. L'ultima domenica di carnevale tutti i gruppi riuniti sfilano e si esibiscono lungo le strade più importanti del paese, disperdendosi poi nella piazza principale. 


Può capitare di incontrare i Boes in file di due o tre affiancati e tenuti per mano, a simboleggiare i buoi aggiogati, oppure di incontrare un Boe solo, senza Merdùle e libero dal laccio della soca, che improvvisamente si lancia contro la folla, spaventandola: esso interpreta il toro, più violento e ribelle del bue aggiogato. Uno o più Merdùles tengono “assocati” i propri Boes, che di tanto in tanto, senza preavviso si fermano, si rivoltano contro il padrone e ribellandosi si gettano a terra, scalciando.

È questo il momento più importante del carnevale ottanese, quello in cui l’atto e la pantomima rivivono. Quando questo accade è dovere del Merdùle inginocchiarsi accanto al proprio animale ribelle e spronarlo a rimettersi in piedi, talvolta con costrizione talvolta con una carezza sul muso.

Se il Boe ribelle ancora non si lascia convincere a rialzarsi ecco che interviene la Filonzana, che fermatasi al fianco dell’animale gli intima di obbedire con la minaccia di recidere il filo. Ecco che allora il Boe, convinto, si rimette in piedi, con l’immane fatica di colui che porta addosso il pesante grappolo di grossi campanacci.
  

 Una delle più commoventi e coinvolgenti caratteristiche del carnevale ottanese rimane il ballo tondo che si svolge nella piazza principale alla fine della sfilata delle maschere e che vede coinvolte centinaia di persone tra ottanesi, turisti e semplici spettatori.

MAMOIADA
A Mamoiada si svolge invece il carnevale, se non più importante almeno più famoso, della Sardegna. Esso vede protagonisti i Mamuthones, maschere scure dall’aspetto luttuoso e cupo che sfilano muti in due file ordinate e parallele per le vie del paese, indossando una pesante pelle di pecora nera sopra un completo di velluto marrone. Hanno il capo avvolto da un fazzoletto femminile sempre marrone che copre “su bonette” (5), mentre il viso è nascosto dalla maschera nera dagli accentuati e grossolani lineamenti umani. 

Portano sulla schiena, strettamente allacciato al petto con robuste cinghie di cuoio, un grappolo di campanacci del peso totale di circa 15 - 25 chili, disposti in ordine discendente di grandezza. Sull’addome tengono invece appese alcune piccole campane. 


 

Sfilano sempre in numero di dodici o di multipli di dodici e vengono seguiti e guidati, durante il loro cammino, da otto Issohadores dal volto coperto da una maschera bianca, abbigliati con una giubba rossa, camicia bianca, pantaloni bianchi infilati nelle “crazas” nere (6) e uno scialle del costume femminile, bianco o nero, ricamato a fiorami e annodato su un fianco a mò di fusciacca. Sul capo portano la “berritta” nera (7), trattenuta da un fazzoletto annodato in cima alla testa. A tracolla indossano una sonagliera per cavalli. 

Gli Issohadores, oltre a seguire per tutta la sfilata i Mamuthones, sono dotati di una lunga “soha” (da qui il loro nome) di fune, che usano lanciare a mò di lazo per cogliere di sorpresa giovani fanciulle tra gli spettatori.



Al contrario della spontaneità e della vivacità del carnevale di Ottana quello di Mamoiada è un corteo triste, ordinato e le maschere non hanno nessun contatto con il pubblico presente, limitandosi ad una sfilata per le vie del paese. 

  Il loro passo è cadenzato in una sorta di ritmica danza con i piedi che si muovono contrapposti alle spalle tramite lo slancio di un piede e lo scatto della spalla opposta, fino a che, dopo un certo numero di passi, all’unisono, compiono tre piccoli saltelli, producendo un gran fracasso di campanacci.     

                   
Esattamente come accaduto nel carnevale ottanese, anche la maschera mamoiadina ha subito col tempo delle modifiche nel vestiario. Proprio come nel vicino paese barbaricino, fino a qualche decennio fa nemmeno a Mamoiada tutti mettevano le pelli, e i figuranti indossavano sotto i campanacci solo l’abito di velluto o un cappotto scuro e sul capo portavano un bonette. Solo alcuni indossavano le pelli, ma anche ad un occhio poco esperto i due travestimenti, vecchio e nuovo, possono apparire diversi. Anche gli Issohadores indossavano, al posto delle braghe bianche sopra le "crazas", dei semplici pantaloni neri. Ciò non toglie il fatto che molto probabilmente la scelta di non indossare l’imgombrante abbigliamento pellito risultasse più qualcosa di personale dovuto al momento storico attraversato (parliamo del dopoguerra), in cui le ricchezze erano molto limitate, che non una vera e propria necessità del rito, in quanto un abbigliamento pellito sembra molto più confacente all’antichità del mascheramento di quanto non possa esserlo l’abito di velluto. 
   Immagini tratte dal filmato “Mamuthones e Issohadores di Mamoiada in sfilata: documentario fine anni ‘50’”.

        Immagini tratte dal filmato “Mamuthones e Issohadores di Mamoiada in sfilata: documentario fine anni ‘50’”.

OROTELLI

Col cappuccio de “su gabbanu” (8) di orbace nera calato sugli occhi e chiuso stretto al collo, il viso tinto di nera fuliggine di sughero bruciato e una fila di piccole campanelle a tracolla, trainando un aratro, ecco che i Thurpos (i ciechi) irrompono nella scena del carnevale di Orotelli. 




Abbigliati come un tempo si abbigliavano i pastori, col cappuccio calato sul viso come usavano i vedovi sardi fino a pochissimi decenni orsono, queste maschere carnevalesche impersonano, come ad Ottana, la fatica del bovaro che tiene a bada i due buoi aggiogati. Quasi impossibile distinguere le due figure, bovaro e bovini appunto, perché sia nel nome che nell’abbigliamento nulla li distingue, se non che i due Thurpos, sempre in coppia, trainano l’aratro, mentre il Thurpo bovaro rimane dietro l’attrezzo. 


La loro andatura è veloce e ciondolante, ed il bovaro porta con sé una cassetta di legno da cui di tanto in tanto prende del grano da tirare sulla folla di spettatori in segno di fertilità e buona fortuna. Anche nel carnevale orotellese è presente la figura del toro, un Thurpo identico agli altri, sciolto dal giogo, che scorrazza libero e si introduce in mezzo al pubblico, cogliendolo spesso di sorpresa.

I Kukeri di Bulgaria


Introdotta tra le maschere sarde più antiche dopo la riscoperta, avvenuta nel 1978, ad opera dell’insegnante Giovanna Pala Sirca, la maschera orotellese trova delle somiglianze nella pantomima bulgara dei Kukeri, che addirittura talvolta, oltre a trainare l’aratro in coppia come buoi aggiogati, vestono una sorta di mantello marrone chiaro con il cappuccio a coprire il viso.




    Oltre ai Thurpos, nel 1993 entrò a far parte delle maschere di Orotelli “s’Eritaju”, dopo lo studio approfondito del poeta scrittore Larentu Pusceddu. Con indosso un saio bianco, il cappuccio sul capo e una maschera di tessuto rossa a coprire il viso, essa vaga alla ricerca di giovani donne, inseguendole per pungerle sul seno con gli aculei dei ricci che porta appesi al collo, inseriti all’interno di tappi di sughero: è questo, con molta evidenza, un rito propiziatorio per la fertilità. Ritenuta una maschera “pericolosa”, non sempre accompagna i Thurpos durante le loro sfilate, soprattutto se fuori dal paese. Ostracizzata per l’utilizzo della pelle di riccio, alcuni anni fa il comune decise che si sarebbero potute utilizzare solo le pelli di animali trovati già morti, in modo da evitare che per la creazione della maschera si causassero inutili uccisioni di ricci selvatici.

 Federica Selis
 
( 1)    Negli ultimi tempi, ad Ottana, è possibile veder sfilare un secondo tipo di filonzana, incinta, che proprio per il suo essere gravida porta in sé un significato diverso dalla prima: essa, infatti, non può togliere la vita ma donarla, tanto che nel suo mascheramento sono del tutto assenti le forbici. Questo può in realtà apparire a prima vista un controsenso, in quanto la Filonzana è principalmente anche la figura di una vedova, che nel mondo arcaico sardo non sarebbe stata affatto accettata come donna gravida.
(   2)    Per saperne di più sulla misteriosa figura de s’Accabadora http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/07/saccabadora-viveva-vicino-casa-mia.html.
(   3)    Scarponi.
(   4)    Una lunga fune un tempo fatta di cuoio ora sostituita in taluni casi con una normale corda.
(   5)    Il cappello sardo da uomo.
(   6)    Le ghette del costume sardo, che coprono le scarpe e salgono su fino al ginocchio.
(   7)    Copricapo del costume sardo.
(   8)    Un cappotto corto al ginocchio.

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