mercoledì 11 luglio 2012

Le streghe-vampiro della Sardegna: le figure leggendarie della Coga e della Surbile


  di Federica Selis
Coi tempi che corrono non è più prassi per le famiglie avere molti figli. È cambiata la società, è cambiato il modo di vivere il tempo, lo stesso modo di accudire la famiglia, il senso stesso del concepirla. Alcuni decenni orsono, come tutti sappiamo, le cose erano diverse: i fratelli più grandi dovevano badare alla casa, al focolare, talvolta era loro dovere allevare i fratellini più piccoli. Crescere una famiglia numerosa era considerato quasi un dovere, nonché un indice di fertilità e di potenza dell’uomo, perché tutti i figli, soprattutto quelli maschi, erano utili al sostentamento ed impiegati nel lavoro in campagna. Tuttavia la mortalità infantile era molto alta, e vista la sua incidenza in seno alla famiglia, considerata una vera disgrazia. Le cause erano diverse: vuoi la scarsa igiene se il neonato nasceva in casa, vuoi tare ereditarie, vuoi malattie non diagnosticate o poca cura del neonato, fatto sta che non tutti i bambini sopravvivevano o raggiungevano età molto elevate. Per redimere agli occhi della società, o della propria coscienza, una madre incauta o la morte inspiegabile di un neonato in culla, si era quindi soliti camuffare il decesso con la scusante del fatto leggendario. Si tenga presente che la leggenda non era vista allora con gli occhi di oggi: la credenza popolare era molto più forte e capitava spesso che il racconto di un fatto inspiegabile venisse preso per vero sia da chi raccontava che da chi ascoltava.
Ed ecco che si narrava che durante la notte, mentre i genitori dormivano, nella stanza del bambino era entrata “sa Surbile” (o Survile): essa, nelle vesti di un grosso gatto nero, si era introdotta nella camera dove il neonato riposava e, una volta posatasi sopra la culla, gli aveva succhiato il sangue dalla fontanella sul capo, fino a farlo morire dissanguato. Il caso aveva voluto che i genitori,incautamente, non avessero provveduto a proteggere la stanza con le cose dovute e così la disgrazia si era compiuta. Era d’uso infatti, per evitare che ciò accadesse, prendere dei semplici accorgimenti, quali posizionare all’interno della stanza una falce dentata o spargere sul pavimento dei chicchi di grano, o ancora posizionare sullo stipite della porta una scopa di saggina rivolta all’insù, oppure lasciare da qualche parte un pettine: l’importante, in tutte queste situazioni, era che il numero dei denti, o dei chicchi o dei fili fosse maggiore a sette, perché questo era il numero fino a cui la surbile riusciva a contare. Una volta superato questo essa doveva ricominciare daccapo e di conseguenza trascorreva la notte gingillandosi nel passatempo e lasciando perdere il bambino che quindi si salvava. Quasi sempre quest’essere leggendario era la personificazione di una suocera o di una vicina particolarmente invidiosa della giovane madre, capitava quindi che se si fosse riusciti a trovare l’animale ancora intento a compiere il suo vile gesto  e lo si fosse colpito con un oggetto, ferendolo, molto probabilmente il mattino dopo la donna, tornata nelle sue sembianze reali, avrebbe portato addosso i segni della lotta nello stesso punto in cui era stato ferito l’animale. Era comunque prassi, in quei tempi, allontanare ogni gatto nero che si fosse trovato nelle vicinanze dell’abitazione, soprattutto se senza padrone. Ma era cosa naturale anche uccidere tutte le mosche che svolazzavano per casa, perché si riteneva che proprio con queste sembianze la surbile riuscisse ad introdursi nelle stanze chiuse attraverso i buchi delle serrature, e ivi trasformarsi in gatto. Nel sud Sardegna, in particolare a Villacidro, la figura della strega-vampiro prendeva il nome di “Coga” e le sue sembianze erano quelle del barbagianni, o stria. Si badi bene che nel Sulcis il termine “coga” ha anche l’accezione di “donna che porta sfortuna” (da coga = colei che cuoce; colei che cuoce le pozioni; fattucchiera). Era infatti d’uso, al passaggio di una donna che si credeva tale, fare gli scongiuri. Sebbene molto simile nel suo ruolo malefico alla surbile, tuttavia la figura della coga si differenzia da questa per tre ragioni fondamentali: la prima è l’animale in cui si trasforma;la seconda è il colore dell’animale: nero per la surbile, bianco per la coga; la terza è la sua stessa ragion d’essere, a dir poco particolare. Destinata alla condanna dell’esser coga, quindi strega-vampiro, era infatti colei che aveva la sfortuna di nascere settima figlia femmina di una numerosa famiglia, oppure di venire al mondo il giorno della vigilia di Natale. Suo identificativo era una croce pelosa portata nella schiena, nonché una piccola ed impercettibile coda che ella nascondeva sotto la lunga gonna. La notte, la coga si riuniva nelle campagne assieme ad altre sei streghe sue simili, si ungeva le giunture delle ossa con grasso di morto sciolto al fuoco, che le permetteva di trasformarsi, e prendeva avvio la sua incursione vampiresca sotto la forma di un grosso rapace notturno bianco, la stria. Con queste sembianze animali si introduceva nella stanza del bambino attraverso la finestra aperta e compiva il suo truce atto vampiresco. Per eliminarla, o comunque tenerla buona, si utilizzavano le stesse tattiche che si mettevano in atto contro la surbile, ossia un treppiede rovesciato sotto il letto o una scopa di saggina rivolta all’insù e sistemata sullo stipite della porta. A Villacidro in particolare, si aveva molta cura di non uccidere i ragni, perché si riteneva che, nel caso la coga si fosse introdotta nella casa sotto forma di mosca, essi avrebbero provveduto ad eliminarla mangiandola, rivolgendo quindi una protezione naturale alla casa. Anche i brebus avrebbero aiutato la famiglia a scongiurare il maleficio ed in particolare si riteneva molto utile rivolgere una preghiera a San Sisinnio, da sempre invocato in Sardegna come protettore delle partorienti e delle giovani donne da poco divenute madri. Inutile dire che ben poco potevano fare questi rimedi leggendari per consolare una famiglia dalla perdita di un figlio neonato, ma agli occhi della società tutto ciò sarebbe servito a redimere i giovani genitori incolpevoli o meno. Fatto sta che con l’avvento degli ospedali e delle apparecchiature di controllo la maggior parte delle morti infantili si sono evitate, la coscienza popolare è venuta meno e così anche la credulità delle persone verso queste antiche figure fantastiche. Non solo l’uso della storia è mancato, ma la stessa conoscenza della coga e della surbile, che più nessuno ha necessità di sfruttare a mò di scusante, si è persa quasi del tutto nel sapere delle generazioni d’oggi. Come già precedentemente accennato, restava ancora nel Sulcis, fino a qualche decennio fa, l’uso del termine “coga” per indicare una donna particolarmente brutta e ritenuta portatrice di sfortuna, sottolineandone il passaggio con la frase “lah ca cussa est coga” e accompagnandola con uno scongiuro. Di sicuro ora la vista di un barbagianni non incute più tanta paura; le mosche vengono scacciate per un'altra ragione e anche ai ragni è riservata la stessa sorte. E per quanto riguarda il gatto nero, l’unica accezione che gli è rimasta è quella del portatore di sfortuna, ovvero la stessa che permane (guardacaso) per la coga. Non ci è dato sapere al momento se la chiesa possa aver avuto il suo ruolo in questa trasformazione di pensiero, fatto sta che la concezione rimane e il sospetto pure.

Nessun commento:

Posta un commento