di Federica Selis
Coi tempi che corrono non è più prassi per le famiglie avere
molti figli. È cambiata la società, è cambiato il modo di vivere il tempo, lo
stesso modo di accudire la famiglia, il senso stesso del concepirla. Alcuni
decenni orsono, come tutti sappiamo, le cose erano diverse: i fratelli più
grandi dovevano badare alla casa, al focolare, talvolta era loro dovere
allevare i fratellini più piccoli. Crescere una famiglia numerosa era
considerato quasi un dovere, nonché un indice di fertilità e di potenza
dell’uomo, perché tutti i figli, soprattutto quelli maschi, erano utili al
sostentamento ed impiegati nel lavoro in campagna. Tuttavia la mortalità
infantile era molto alta, e vista la sua incidenza in seno alla famiglia,
considerata una vera disgrazia. Le cause erano diverse: vuoi la scarsa igiene
se il neonato nasceva in casa, vuoi tare ereditarie, vuoi malattie non
diagnosticate o poca cura del neonato, fatto sta che non tutti i bambini
sopravvivevano o raggiungevano età molto elevate. Per redimere agli occhi della
società, o della propria coscienza, una madre incauta o la morte inspiegabile
di un neonato in culla, si era quindi soliti camuffare il decesso con la
scusante del fatto leggendario. Si tenga presente che la leggenda non era vista
allora con gli occhi di oggi: la credenza popolare era molto più forte e
capitava spesso che il racconto di un fatto inspiegabile venisse preso per vero
sia da chi raccontava che da chi ascoltava.
Ed ecco che si narrava che durante
la notte, mentre i genitori dormivano, nella stanza del bambino era entrata “sa Surbile” (o Survile): essa, nelle
vesti di un grosso gatto nero, si era introdotta nella camera dove il neonato
riposava e, una volta posatasi sopra la culla, gli aveva succhiato il sangue
dalla fontanella sul capo, fino a farlo morire dissanguato. Il caso aveva
voluto che i genitori,incautamente, non avessero provveduto a proteggere la
stanza con le cose dovute e così la disgrazia si era compiuta. Era d’uso
infatti, per evitare che ciò accadesse, prendere dei semplici accorgimenti,
quali posizionare all’interno della stanza una falce dentata o spargere sul
pavimento dei chicchi di grano, o ancora posizionare sullo stipite della porta una
scopa di saggina rivolta all’insù, oppure lasciare da qualche parte un pettine:
l’importante, in tutte queste situazioni, era che il numero dei denti, o dei
chicchi o dei fili fosse maggiore a sette, perché questo era il numero fino a
cui la surbile riusciva a contare. Una volta superato questo essa doveva
ricominciare daccapo e di conseguenza trascorreva la notte gingillandosi nel
passatempo e lasciando perdere il bambino che quindi si salvava. Quasi sempre
quest’essere leggendario era la personificazione di una suocera o di una vicina
particolarmente invidiosa della giovane madre, capitava quindi che se si fosse
riusciti a trovare l’animale ancora intento a compiere il suo vile gesto e lo si fosse colpito con un oggetto,
ferendolo, molto probabilmente il mattino dopo la donna, tornata nelle sue
sembianze reali, avrebbe portato addosso i segni della lotta nello stesso punto
in cui era stato ferito l’animale. Era comunque prassi, in quei tempi,
allontanare ogni gatto nero che si fosse trovato nelle vicinanze
dell’abitazione, soprattutto se senza padrone. Ma era cosa naturale anche
uccidere tutte le mosche che svolazzavano per casa, perché si riteneva che
proprio con queste sembianze la surbile riuscisse ad introdursi nelle stanze
chiuse attraverso i buchi delle serrature, e ivi trasformarsi in gatto. Nel sud
Sardegna, in particolare a Villacidro, la figura della strega-vampiro prendeva
il nome di “Coga” e le sue sembianze
erano quelle del barbagianni, o stria. Si badi bene che nel Sulcis il termine
“coga” ha anche l’accezione di “donna che porta sfortuna” (da coga = colei che
cuoce; colei che cuoce le pozioni; fattucchiera). Era infatti d’uso, al
passaggio di una donna che si credeva tale, fare gli scongiuri. Sebbene molto
simile nel suo ruolo malefico alla surbile, tuttavia la figura della coga si
differenzia da questa per tre ragioni fondamentali: la prima è l’animale in cui
si trasforma;la seconda è il colore dell’animale: nero per la surbile, bianco
per la coga; la terza è la sua stessa ragion d’essere, a dir poco particolare.
Destinata alla condanna dell’esser coga, quindi strega-vampiro, era infatti
colei che aveva la sfortuna di nascere settima figlia femmina di una numerosa
famiglia, oppure di venire al mondo il giorno della
vigilia di Natale. Suo identificativo era una croce pelosa portata nella
schiena, nonché una piccola ed impercettibile coda che ella nascondeva sotto la
lunga gonna. La notte, la coga si riuniva nelle campagne assieme ad altre sei
streghe sue simili, si ungeva le giunture delle ossa con grasso di morto sciolto
al fuoco, che le permetteva di trasformarsi, e prendeva avvio la sua incursione
vampiresca sotto la forma di un grosso rapace notturno bianco, la stria. Con
queste sembianze animali si introduceva nella stanza del bambino attraverso la
finestra aperta e compiva il suo truce atto vampiresco. Per eliminarla, o
comunque tenerla buona, si utilizzavano le stesse tattiche che si mettevano in
atto contro la surbile, ossia un treppiede rovesciato sotto il letto o una
scopa di saggina rivolta all’insù e sistemata sullo stipite della porta. A
Villacidro in particolare, si aveva molta cura di non uccidere i ragni, perché
si riteneva che, nel caso la coga si fosse introdotta nella casa sotto forma di
mosca, essi avrebbero provveduto ad eliminarla mangiandola, rivolgendo quindi
una protezione naturale alla casa. Anche i brebus avrebbero aiutato la famiglia
a scongiurare il maleficio ed in particolare si riteneva molto utile rivolgere
una preghiera a San Sisinnio, da sempre invocato in Sardegna come protettore
delle partorienti e delle giovani donne da poco divenute madri. Inutile dire
che ben poco potevano fare questi rimedi leggendari per consolare una famiglia
dalla perdita di un figlio neonato, ma agli occhi della società tutto ciò sarebbe
servito a redimere i giovani genitori incolpevoli o meno. Fatto sta che con
l’avvento degli ospedali e delle apparecchiature di controllo la maggior parte
delle morti infantili si sono evitate, la coscienza popolare è venuta meno e
così anche la credulità delle persone verso queste antiche figure fantastiche.
Non solo l’uso della storia è mancato, ma la stessa conoscenza della coga e
della surbile, che più nessuno ha necessità di sfruttare a mò di scusante, si è
persa quasi del tutto nel sapere delle generazioni d’oggi. Come già
precedentemente accennato, restava ancora nel Sulcis, fino a qualche decennio
fa, l’uso del termine “coga” per indicare una donna particolarmente brutta e
ritenuta portatrice di sfortuna, sottolineandone il passaggio con la frase “lah ca cussa
est coga” e accompagnandola con uno scongiuro. Di sicuro ora la vista di un
barbagianni non incute più tanta paura; le mosche vengono scacciate per
un'altra ragione e anche ai ragni è riservata la stessa sorte. E per quanto
riguarda il gatto nero, l’unica accezione che gli è rimasta è quella del
portatore di sfortuna, ovvero la stessa che permane (guardacaso) per la coga.
Non ci è dato sapere al momento se la chiesa possa aver avuto il suo ruolo in
questa trasformazione di pensiero, fatto sta che la concezione rimane e il
sospetto pure.
Nessun commento:
Posta un commento