martedì 18 settembre 2012

Maschere di Sardegna:


Fonni, Bosa, Ovodda, Gavoi, Austis
di Federica Selis

FONNI

Se c’è una maschera che assomiglia a quella dei "Thurpos" di Orotelli (1) è quella dei "Buttudos" di Fonni. Stesso “gabbanu” (2) nero a doppiopetto col cappuccio sul capo, stesso viso imbrattato di fuliggine di sughero bruciato, stessi pantaloni di velluto nero, gambali e "cosinzos"(3), anche i fonnesi portano a tracolla una fila di piccoli campanacci appesi ad una sottile cinghia di cuoio. Ciò che li differenzia dai simili orotellesi è il ruolo che i Buttudos hanno all’interno del rituale carnevalesco. Essi sono infatti i guardiani de “S’Urthu”, la seconda maschera più importante del carnasciale fonnese, che tengono legato a sé attraverso lunghe catene di metallo. È proprio l’utilizzo di questa catena, invece della classica "soca" (4), che contraddistingue queste scure maschere dalle altre.

Come già detto, la seconda componente del carnevale fonnese è s’Urthu. Il vero significato di questo termine non è affatto chiaro. Diversi studiosi si sono occupati di questa questione, arrivando tutti alla stessa conclusione: la parola può trovare solo due significati plausibili: orso oppure orco. Non è certo che in Sardegna potessero essere presenti, in epoche arcaiche, gli orsi, fatto sta che è ben noto ormai che la fauna primordiale si sia di molto modificata negli ultimi millenni vedendo l’estinzione di specie che un tempo erano presenti e delle quali rimane tuttora presente, nella lingua e nella toponomastica, il nome. A sostenere questa prima tesi, inoltre, c’è il fatto che la maschera carnevalesca dell’orso si ritrovi in diversi altri carnevali, sia nell’Italia continentale che nell’Europa danubiana, dove molto profonde sono le somiglianze tra le maschere locali e quelle sarde. Anche il carattere della maschera fonnese parrebbe rapportarsi a quello selvaggio dell’animale di cui porterebbe il nome: irruento, imprevedibile, trasgressivo ed irriverente. Ma ciò è vero anche per l’orco, termine che si presta spessissimo in Sardegna a dar nome a strutture megalitiche, in particolare a nuraghi e tombe dei giganti, sotto la locuzione di “Sa Domu ‘e s’Orcu”, “la Casa dell’Orco”, appunto (5).  Che il suo nome significhi orco oppure orso, sta di fatto che quella dell’Urthu è in assoluto la maschera più folle, irresponsabile e coraggiosa tra tutte quelle sarde.


Il suo abbigliamento prevede una pelle bianca di montone o caprone che gli copre anche il capo, maglia nera, pantaloni di velluto nero, gambales e cosinzos. Taluni Urthos portano appeso al collo un grosso campanaccio. Il viso, le mani ed anche le pelli indossate sono imbrattati di fuliggine, tanto che il volto appare completamente oscurato e mostruoso quando sorride, tendendo a mostrare i denti, dandogli quasi un aspetto spaventoso e demoniaco. È legato in vita con una catena che serve per tenerlo a freno quando compie le sue malefiche incursioni. Caratteristiche de s’Urthu sono infatti l’aggressività e l’imprevedibilità. Impersonato spesso da uomini di stazza piuttosto imponente, è comunque una figura agile, capace di arrampicarsi su qualunque tipo di superficie, possano essere pali della luce, cornicioni, balconi o anche semplici cavi del telefono. Entra nelle case attraverso le finestre aperte, talvolta arrivando finanche ai piani più alti dei palazzi sfruttando ogni genere di appiglio, e si fa offrire da bere. Talvolta la sua ribellione lo porta a gettarsi per terra oppure a lottare con altri Urthus, o comunque ad infastidire e spaventare gli astanti comparendo loro alle spalle o afferrandoli a sorpresa per le caviglie. La maggior parte delle volte i suoi attacchi sono rivolti verso le giovani donne, che s’Urthu carica poi sulle spalle portandole via con sè. È una tra le maschere riscoperte da poco per volere dei fonnesi. 
 
Testimonianze del passato, risalenti alla fine dell’800, già parlano anche della figura del "Ceomo", ovvero il fantoccio di paglia e stracci, vittima e “capro espiatorio” del carnevale fonnese, colui che prenderà su di sé le colpe di tutti i suoi concittadini espiandole con la morte al rogo. Della sua triste sorte piangeranno “is Attittadoras”, o “mascaras limpias”, uomini vestiti con abiti femminili neri che intoneranno il canto di morte, “s’attittu”, per il fantoccio. Canti che poi, con l’incitamento del pubblico, perderanno presto il loro tragico salmodiare per diventare scurrili e spesso lascivi.

BOSA
All’inizio canti satirici, lascivi e irridenti, che si spargono per le vie della cittadina sin dalle prime ore del mattino, prendendosi gioco di quei concittadini che durante l’anno si son resi protagonisti di scandalo o di pettegolezzo, man mano che scende la sera e i costumi cambiano si modifica anche la tipologia del canto, che diventa vero e proprio lamento funebre per il re Giolzi che pian piano si avvicina alla morte. Ed eccolo il re Giolzi, pupazzo di canne e stracci, rigorosamente bianco anch’esso, simbolo del carnevale, capro espiatorio delle colpe della città ma anche dal forte simbolismo sessuale, per via dei genitali evidenti e messi in mostra. Al culmine della notte del martedì grasso la sua fine è prossima. I canti funebri lo accompagnano mentre le fiamme lo avvolgono e le maschere bianche girano attorno a lui segnando la marcia col potente suono dei tamburi.
Il tema della morte del fantoccio, del “capro espiatorio” e de “su teu”, il canto funebre, è presente quindi anche nel particolarissimo carnevale di Bosa. Qui sono il bianco e nero a farla da padroni, in un incontrarsi e sovrapporsi dei due colori che si uniscono e si mischiano tra di loro, mescolandosi. Nero è infatti il colore dell’abito di giorno, bianco è quello della notte. La giornata più importante del carnevale bosano è il martedì grasso. Un tempo i festeggiamenti carnascialeschi iniziavano il giorno di Capodanno e si protraevano fino alla Quaresima. Tutte le domeniche erano considerate festive, così come i giorni principali del carnevale. Come già detto, due sono i colori che lo caratterizzano: il nero di giorno e il bianco quando scende la sera. Le cosiddette “maschere” vestono abiti femminili neri da vedova. Il capo è coperto da un fazzoletto nero e il viso anche è tinto di nero. Portano appresso bambolotti smembrati, simbolo di Giolzi morente di fame, e imitano i lamenti de “is Attittadorasa” (le piangenti), che rappresentano. Avvicinano i bambolotti al seno delle spettatrici simulando l’allattamento, affinchè possano sfamare il bambolotto crudelmente abbandonato dalla madre che ha preferito i festeggiamenti di carnevale a lui, condannandolo a morir per fame.
La sera tutto cambia. Ilarità e inneggiamenti al sesso la fanno da padroni in questo carnevale ricco di simbolismo. La notte le maschere vestono abiti interamente bianchi, con lenzuola e federe, ma hanno sempre il viso tinto di nero e tra le braccia portano una lanterna di carta, con cui illuminano le parti intime di tutti i passanti (soprattutto se femminili) alla ricerca di Giolzi: si dà il caso infatti che il re Giolzi abbia la predisposizione particolare a nascondersi in mezzo alle gambe delle donne, nei genitali. Quando infine riescono a trovarlo ecco che il richiamo «Giolzi, Giolzi! Ciappadu, ciappadu!» echeggia alto tra la folla. È questo l’inizio del “martirio” del fantoccio, destinato a finire nel rogo. La prima volta che si viene a contatto con questo carnevale esso può apparire piuttosto crudo per la presenza del sangue e dello smembramento del bambolotto.
Ma la distinzione dei due colori non è la sola particolarità del carnevale di Bosa, considerato realmente autentico proprio per la sua originalità e profonda diversità dal resto dei carnevali sardi e non solo, sebbene la tradizione del canto funebre per il fantoccio del carnevale che finisce al rogo sia popolare in gran parte dell’Italia continentale: ciò tuttavia gli conferisce anche un carattere di modernità rispetto ai carnevali pelliti della Barbagia.

OVODDA
Si narra che un tempo ad Ovodda regnasse un potente tiranno. Per il suo carattere prepotente e dispotico era stato messo alla gogna e condannato a dover subire la terribile vendetta della popolazione, che non aveva esitato a vendicare le ingiustizie subite nella maniera più crudele e impietosa possibile: il rogo del despota ed il suo lancio giù dal burrone. Si dice che il culmine del carnevale ovoddese voglia riproporre di anno in anno questa situazione, in cui a conquistar la vittoria era stato il carattere impavido e coraggioso della comunità di Ovodda (6). Questo carnevale non fa parte di quei carnevali di recente riscoperta: esiste un video, realizzato nel 1989 a cura di Paolo Piquereddu, in cui si descrive la fase finale, ovvero la condanna al rogo del fantoccio. È questo il protagonista principale di questo carnasciale, che ha come caratteristica quella di essere celebrato il giorno del Mercoledì delle Ceneri (Mehuris de Lessia), giornata in cui tutto il resto della Sardegna e del mondo cattolico in genere si prepara ad entrare nei rigori della Quaresima. Ad Ovodda ciò non accade, essendo proprio il mercoledì il giorno in cui il carnevale trova il suo epilogo più tragico. Scomposto e disordinato, ma soprattutto privo di qualunque regola, il carnasciale ovoddese non prevede una vera e propria maschera: per le strade del paese gli abitanti si spargono indossando gli abiti più stravaganti, stracci, vestiti vecchi e quant’altro faccia all’occorrenza, anche se non è strano talvolta far l’incontro di qualcuno con indosso una pelle di capra appena scuoiata e compresa di testa, o anche maschere vestite di pelli di pecora con annessi chiassosissimi campanacci. Appresso, legati a funi, o sopra carretti, le maschere possono portare di tutto: da animali vivi chiusi in gabbie, a vecchi oggetti d’ornamento, ombrelli, ombrelloni da spiaggia, vecchi elettrodomestici e quant’altro. Non mancano nemmeno gli atti di vandalismo e così ecco sfilare per le strade maschere con appresso cartelli stradali appena sradicati. Tutto è permesso durante questo giorno, tutto è lecito, è l’anarchia più totale. L’unica cosa che non deve assolutamente mancare, e che accomuna tutti i mascherati, è il viso interamente tinto di nera fuliggine, caratteristica che dà il nome alle maschere, denominate “is Intintos”, i tinti. Tra essi sono presenti alcuni “Intinghidores”, i tinteggiatori, il cui scopo è quello di spalmare di fuliggine di sughero (7) tutti coloro che incontrano per la strada. Come già detto sono la totale anarchia e il caos della festa a far da padroni in questo carnevale, che vede il trasporto dell’enorme fantoccio del Don Conte lungo le strade del paese, disordinatamente e senza un percorso stabilito, a bordo di un carretto trainato da un asino, per tutta la giornata del Mercoledì delle Ceneri. Il volto di sughero o cartapesta dalle rimarcate fattezze umane, addosso una blusa colorata per coprire un’anima di stracci e ferro, il fantoccio del Don Conte appare assai ridicolo a causa del suo enorme e smisurato ventre, delle gambe inversamente corte e dei genitali ben evidenti. L’epilogo della sua sorte è noto, e sebbene in teoria egli debba subire un processo, spesso viene condannato senza che la sentenza sia stata emanata. La sua fine è il rogo, a cui arriva dopo aver subito il pestaggio, le ingiurie e gli sbeffeggiamenti di chi lo accompagna, ed infine il lancio nel dirupo, o da un ponte, alla periferia del paese, accompagnato dai fischi e dalle grida quasi disumane di tutta la comunità festante.

GAVOI

Come per Bosa il martedì grasso e per Ovodda il Mercoledì delle Ceneri, anche per Gavoi c’è una giornata precisa che definisce l’apice del carnevale: il Giovedì grasso, chiamato Giobia Lardajola, per via del fatto che sia d’uso cucinare le fave col lardo. Protagonisti ne sono “sos Sonadores” e “sos Tumbarinos”, ovvero i suonatori di tamburo. Diversissimo da tutti gli altri carnevali barbaricini, ma nel contempo fedele alla regola della morte del fantoccio, il carnevale di Gavoi si distingue dagli altri per la festosità e la musica. Caratteristica di questo carnasciale, infatti, non è la maschera, semplice, in sughero, che raramente viene indossata, ma bensì gli strumenti musicali. Risalenti ad epoca antichissima, rarissimi da trovare, solo a Gavoi infatti vengono ancora utilizzati: la loro particolarità è che sono realizzati interamente a mano, recuperati da utensili e strumenti della casa tipica come setacci per la farina, cilindri di sughero o forme per il formaggio. Essi sono: su triangulu; su tamburu, realizzato a mano con pelli di capra o di cane, ora sostituite da pelli sintetiche; su tumborro, strumento tanto antico quanto particolarissimo, formato da una lunga canna, terminante con una vescica di maiale che gli fa da cassa di risonanza e con un lungo crine di cavallo a collegare le due parti; e ancora su pipiolu, un piccolo flauto di canna con quattro fori, che un tempo veniva utilizzato anche durante il carnevale di Ottana dagli innamorati che, accompagnandolo con esibizioni di poesia estemporanea, corteggiavano col suo suono le donne amate.
Il carnevale di Gavoi è quindi un carnevale “suonato”, di suoni, musica e gioiosità. E’ un carnevale itinerante, che dal momento de “sa sortilla ‘e Tumbarinos”, ovvero il raduno dei Tamburini, richiama in strada i suoi abitanti per riunirli nella festa.
 I suonatori non si distinguono per la mascherata, portando indosso semplicemente le classiche vesti in velluto, complete di bonette sul capo. Talvolta il loro volto può essere oscurato di fuliggine.
Altra particolarità del carnevale gavoese è la partecipazione delle donne. Escluse dall’essere protagoniste degli altri riti carnascialeschi, persino quando le figure rappresentate sono prettamente femminili, in questo carnevale invece esse possono esibirsi al pari degli uomini.

Pur distinguendosi per il suo carattere musicale, tuttavia anche Gavoi rimane fedele alla regola della morte del fantoccio sul rogo. In questo caso esso prende il nome di Zizzarrone, o Tiu Zarrone, ed il suo destino è identico a quello degli altri fantocci: viene trasportato a braccia o su un carro trainato da un asino e muore sul rogo. Il suo legame coi sonadores è dovuto al fatto che un tempo forse essi accompagnassero il suo cammino fino alla morte.

AUSTIS
Con “sos Colonganus” di Austis desideriamo aprire ora una finestra sulle maschere più particolari e di recente riscoperta della Sardegna. L’unica testimonianza dell’esistenza di questo travestimento in un passato vecchio almeno di alcuni secoli ci è data dalle poesie di Bonaventura Licheri, riportate in auge dallo studio del poeta neonelese Eliano Cau e della studiosa ulianese Dolores Turchi solo nel vicino 2007, anno della prima uscita ufficiale della maschera. In realtà non c’è nessuna certezza sull’autenticità sia degli scritti del Licheri sia della sua reale identità con colui che accompagnò il gesuita Padre Vassallo durante le sue disgraziate perenigrazioni, atte ad eliminare il paganesimo in Sardegna. Tantissimi sono i dubbi che accompagnano entrambe le cose e quindi la reale esistenza in tempi molto remoti di questa maschera, o almeno del rituale da essa riproposto, è del tutto ancora da verificare. Fatto sta che la maschera austese risulta molto diversa dalle altre maschere esistenti già in precedenza, in quanto carica di elementi propri, e quindi la sua antichità, soprattutto in veste dell’abbigliamento e degli ornamenti utilizzati, la pone tra quelle maschere che, sebbene di recente riscoperta, gode di più probabilità di risultare realmente autentica.
Le figure che compongono il carnevale di Austis sono principalmente tre: sos Colonganos, sos Bardianos e s’Urtzu.  I primi indossano una lunga pelle nera di pecora, sulla schiena portano ossi di animali anziché campanacci, sul viso hanno la maschera in sughero dipinta di nero dalle fattezze simili a quella dei Mamuthones, che coprono con rametti e foglie di corbezzolo. Il capo è coperto da un fazzoletto nero, su cui viene poi posata una pelle di volpe completa della testa. Le braccia e le mani sono imbrattate di fuliggine nera e camminano muniti di bastone. Ballano ordinati attorno al fuoco di Sant’Antonio o a quello di San Sebastiano e durante le sfilate procedono su due file ordinate. Di tanto in tanto battono a terra il bastone e fanno un salto per far risuonare gli ossi. In paese si dice che producano un suono simile a quello delle “matraccas” della Settimana Santa (8).
 





S’Urtzu” è invece la vittima di questo carnevale, stavolta interpretato da un essere umano in carne ed ossa. Abbigliato con un gilet di pelle di cinghiale completa della testa e il viso tinto di nero, è tenuto a “sa soca” dai Bardianos, dai quali viene pungolato con dei bastoni quando d’improvviso decide di gettarsi a terra.
Sos Bardianos” sono i guardiani de s’Urtzu e lo tengono legato con la “soca”. Indossano su “gabbanu” nero chiuso al collo come i Thurpos e i “gambales”, portano il cappuccio tirato sul capo e il viso e le mani tinti di nero. Suonano il corno.



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1)  Vedere  http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/08/maschere-di-sardegna-ottana-mamoiada.html
2)     Cappotto corto al ginocchio.
3)     Scarponi.
 4)    Una lunga fune un tempo fatta di cuoio ora sostituita in taluni casi con una normale corda.
 5)    Vedere ad es: Nuraghe Sa Domu ‘e s’Orcu di Domusnovas (http://www.youtube.com/watch?v=kcBUETe40YM); Tomba dei Giganti Sa Domu ‘e s’ Orku di Siddi (http://www.youtube.com/watch?v=fzA8gVyzm2A); Nuraghe Sa Domu ‘e s’Orku di Sarroch.
(7)    Zinziveddu
(8)    Sonu ‘e matracca