lunedì 14 marzo 2016

Seulo - Piscina 'e Licona

di Federica Selis

Le cascate di Piscina 'e Licona si trovano nel mezzo dell'immensa foresta di Addolì. Il territorio è quello di Seulo. E questa è una Sardegna che non tutti conoscono, eppure perfettamente alla portata di qualunque escursionista nemmeno troppo appassionato. Non dico che la risalita sia delle più agevoli - soprattutto nell'ultimo pezzo -, le cascate si trovano a valle e bisogna risalire lungo il tacco scistoso, ma per fortuna i percorsi sono ben tracciati e curati. Il filmato è fatto con l'unica cosa a disposizione nel momento, cioè il mio cellulare, quindi non è dei migliori... però serve almeno a dare un'idea. Insomma, vederle di persona è tutta un'altra cosa!!!


venerdì 23 maggio 2014

Nonna Ester

- Racconto  -

di Federica Selis

Quella mattina non avevo sonno. Ero uscita presto, quando il sole appena tinteggiava di un pallido rosa sfocato le montagne ad oriente. Mia nonna mi diceva sempre che se avessi trovato il nascondiglio dell’arcobaleno sulla terra avrei sicuramente scoperto un tesoro. Guardai il cielo. Una luna piena biancastra si tratteneva ancora alta sull’orizzonte scuro, nuvole rapide solcavano il cielo provenendo da nord. Promettevano freddo, forse anche quel giorno avrebbe piovuto e magari proprio quella mattina avrei scovato il tesoro dell’arcobaleno. Ero ancora troppo giovane per capire i segnali ma presto sapevo che le cose sarebbero cambiate. Qualcuno mi chiamava predestinata ma io sapevo che non era così. Alla mia età non sapevo nemmeno cosa fosse il destino ma solo che le cose accadevano. Era magia, proprio come il sole che sorgeva e che da solo riusciva a dipingere tutto quello che vedevo attorno a me, quando io non riuscivo ad afferrare un solo albero con la mia piccola mano. Mia nonna diceva che presto avrei saputo fare molto di più, ma io non ci credevo perché ogni volta che cercavo di chiederle qualcosa mi rispondeva: “arriverà anche il tuo tempo.” Io non capivo quale sarebbe stato il mio tempo né quando sarebbe arrivato, ma nonna Ester si limitava a voltarmi le spalle mentre impastava la farina. Quella mattina ero rientrata dentro la cucina dalle pareti bianche di calce fresca perché fuori faceva troppo freddo per restare. Mia nonna era già sveglia da parecchio e due fuochi ardevano nel forno a legna addossato alla parete e in una grande “cuppa” sotto il tavolo rozzo al centro della stanza. La sensazione di calore era molto forte in quell’ambiente così piccolo, ed era sempre piacevole, soprattutto la mattina. In piedi, posai i gomiti sul tavolo e affondai il mento tra le mani, scrutando quel viso di donna non ancora rugoso eppure già incorniciato dal fazzoletto nero da lutto, i cui lembi in quel momento nonna Ester portava annodati sopra la testa. Neppure uno dei suoi capelli grigi sfuggiva a quello strano gioco di nodi: quei capelli quasi del tutto bianchi, ormai lunghissimi, che non avevo mai visto incorniciarle il volto. Nonna Ester, da che io ero nata e forse da molto tempo prima, li teneva strettamente intrecciati e rigirati a formare una crocchia sopra il capo: per questo motivo il suo fazzoletto assumeva una forma a punta e la sua testa appariva leggermente allungata. Solo le sue mani tradivano una vita di stenti, una vita di lavoro duro, soprattutto da quando nonno Raffaele era morto, lasciandola vedova con dodici figli. Nonna Ester aveva solo quarantaquattro anni allora eppure solo le sue mani, dalle dita lunghe e affusolate sebbene non troppo sottili, mostravano le sofferenze patite. La conoscevo bene, ai miei occhi di bambina non c’era al mondo donna più saggia. Nel mentre che la osservavo smise di impastare e si strofinò le mani imbiancate di farina nel canovaccio che portava allacciato in vita, alla stringa del grembiule. Si fermò solo un attimo a guardarmi e notando il mio sguardo assorto mi redarguì colpendomi bonariamente con un angolo dello strofinaccio. “Embè non hai niente da fare?” mi domandò in tono burbero “già che sei lì, và a tirarmi su un secchio dalla fontana.” Non volevo farmi ripetere le cose quando era lei a chiedermele e sebbene avessi compreso che il tono del suo rimprovero era bonario, mi affrettai ad obbedire. Nonna non sopportava di vedermi in ozio e io non volevo vederla contrariata.

Un sottile strato di ghiaccio si era formato durante la notte sulla superficie dell’acqua e dovetti far calare con più velocità il secchio per riuscire a romperlo. Nonostante le mie deboli braccia di bimba, ero abituata a quel lavoro e non mi pesava svolgerlo. Mi era stato insegnato a portare il secchio in equilibrio sulla testa, proprio come facevo con il bucato quando accompagnavo nonna a lavare i panni al lavatoio. Tolsi quindi dalla tasca del logoro grembiule grigio il cerchio di stoffa che usavo per tenere ben fermo il secchio e lo sistemai con cura sul capo, quindi rientrai in casa, premurandomi di non rovesciare nemmeno una goccia d’acqua. Una volta dentro la cucina, ne versai una buona dose su un pentolino che nonna aveva posizionato su un treppiede sul fuoco, affinchè si riscaldasse perchè sarebbe servito a preparare il the per la colazione. Nessuna di noi parlava mentre svolgevamo i nostri compiti.

Quella della pulizia mattutina era un’abitudine a cui mia nonna non voleva che mancassi e davanti al camino c’era sempre la tinozza di ferro dentro cui mi infilavo per fare il bagno. Un tempo era stata ricoperta di smalto blu, ma ora appariva scrostata in più punti e di tanto in tanto spuntava fuori un pezzetto di ruggine. Eppure io la trovavo comoda, anche se adesso che le gambe si erano allungate dovevo piegarmi in tre parti per starci tutta. Nonna Ester stava dando la forma ai piccoli pani che avrebbe infornato di lì a poco. Aveva mischiato all’impasto dei pezzi di carne di maiale e adesso sistemava le pagnotte sulla lunga pala da forno. Ne aveva fatto almeno una ventina di chili perché domenica si sarebbe sposata Vincenza, la figlia della vicina, e nonna gliene avrebbe regalate un po’. Non era il pane degli sposi, questo nonna Ester lo sapeva bene, ma d’altronde a quello ci avrebbero pensato le parenti della sposa, e poi Tzia Maria le aveva chiesto apposta il favore di preparare quel tipo di pagnotte per la figlia.

Nonna si impegnava molto per i vicini. Capitava spesso che qualcuno venisse a cercarla anche alle ore più strane, e non importava che fosse giorno o notte, venivano lo stesso. A volte arrivava gente anche dagli altri paesi, a piedi o anche a dorso d’asino. Nonna però si muoveva sempre da sola. Usciva quando era più buio, anche se d’inverno bastava che fosse anche sera tardi: prima però badava che io fossi profondamente addormentata. Sapevo che mi voleva bene e sapevo anche che doveva farlo, ma non capivo il perché capitasse tanto spesso che dovesse lasciarmi sola in casa la notte. A volte facevo solo finta di dormire e restavo sveglia ad ascoltare il rumore della porta che si chiudeva e quando capivo che era uscita, mi alzavo dal letto e correvo verso la finestra per osservare dove andasse. Ma non riuscivo a vedere niente, perché la strada non era illuminata, e dopo poco mia nonna, sempre di nero vestita e collo scialle tirato sul capo, veniva inghiottita dalle tenebre. La nostra casa non era grande, appena due stanzette, una cucina ed un cortiletto, dove nonna teneva una decina di galline e due oche. Il bagno era in un angolo del cortile, ma c’erano solo un lavandino in cemento per lavare i panni ed un piccolo servizio, e nient’altro. Vivevo con lei ormai da troppi anni per ricordarmi di aver vissuto con altri prima, anche se avevo ben chiari i visi di coloro che mi avevano messa al mondo. Tanto chiari da sapere che nonna Ester in realtà non era la mia vera nonna, ma una sorella della mamma di mio babbo, e che i miei genitori erano quelli che io chiamavo semplicemente Tzia Gesuina e Tziu Migheli. Venivano spesso a trovarmi, lei con una lunga gonna grigia, una giacchetta di lana nera e il fazzoletto a fiori scuri sul capo. Aveva sempre ai piedi un paio di scarponi da lavoro di almeno un numero più grande e teneva le mani intrecciate sul davanti del grembiule. Tziu Migheli invece indossava sempre un completo di velluto marrone, consunto e lacero ai gomiti e man mano che il tempo passava i suoi pantaloni erano sempre più corti, quasi che ogni tanto ne tagliasse un pezzo. Spesso era scalzo, ma altre volte era arrivato con un paio di stivali di pelle aperti però in punta. Entrambi mostravano una certa soggezione verso nonna Ester, che li portava a scambiare con lei appena un paio di cordialità prima di salutarmi e andarsene con la bertula (sacca) piena di buone vivande. Erano lavoratori della campagna, e non possedevano neppure un asino da quanto erano poveri. Nonna Ester non parlava mai di loro, se non la volta in cui, snervata dalle mie richieste, aveva cercato di spiegarmi che non potevano tenermi con sé in quanto abitavano in una casetta troppo misera per poterci ospitare tutti. Io non avevo posto altre domande e mi ero rimessa mesta mesta a far di conto sul quadernetto. Non mi interessava approfondire la questione, perché con la donna che mi stava allevando ci stavo più che bene. Poi una notte tutto cambiò. Ricordo che pioveva molto, di tanto in tanto qualche lampo squarciava il buio e il vento ululava furiosamente, facendo sbattere sui vetri delle finestre i rami dell’albero d’ulivo del cortile. Non c’era luna quella notte e qualcosa mi inquietava. Era solo una sensazione però era come se qualcosa dentro mi angosciasse. Nonna Ester si preparava per uscire, ordinandomi di andare a letto, ma non riuscivo ad ubbidirle: avevo paura. Mi ricordò che l’indomani mi sarei dovuta alzare presto per dar da mangiare alle galline e l’idea del sonno mattutino mi convinse a cedere. Eppure quella sensazione non scompariva. Quella notte finsi di dormire, ma sotto le coperte portavo ancora gli abiti da giorno. Quando nonna uscì aspettai qualche minuto prima di alzarmi dal letto e poi infilai svelta lo scialletto di lana e cercai di seguirla lungo la strada. Lei era davanti a me, appena un centinaio di passi, confusa nel buio della notte per via degli abiti neri. Portava come sempre lo scialle tirato sul capo e doveva avere le braccia incrociate sul petto perché non ne vedevo le mani. Camminava veloce, come se avesse fretta, ed io faticavo non poco a starle dietro. Se l’avessi persa di vista mi sarebbe venuto il panico, perché anche se conoscevo benissimo le strade per tornare a casa, sapevo che la notte girava per le vie il carro dei morti. Nonna passò davanti alla Chiesa di Nostra Signora della Neve e svoltò nell’angolo a sinistra, in un viottolo stretto dal pavimento di acciottolato. Conoscevo bene quel vicoletto, ci abitava Tzia Boicca, la signora che mi regalava sempre le pardule. Nelle ultime settimane aveva avuto il marito malato. Nessun medico era riuscito a curarlo e Tziu Bobore era stato sempre peggio, tanto che nel giro di pochi giorni non era riuscito nemmeno più ad alzarsi dal letto. Tzia Boicca non aveva voluto che lo vedessi, ma dalle chiacchiere delle vicine avevo capito che ormai non c’era più niente da fare. Nonna Ester si infilò dentro la piccola porta di casa di Tzia Boicca senza nemmeno bussare, perché l’uscio era già aperto. Dalle finestre socchiuse si intravedeva solo il chiarore di una candela, tutto il resto della casa non era illuminata. Cercai di scrutare attraverso uno spiraglio della persiana ma per via dell’oscurità e della pioggia non vidi nulla. Tesi l’orecchio ma dalla casa non giungeva alcun suono. Poi d’improvviso l’uscio si riaprì ed io mi appiattii spaventata contro il muro per non farmi scoprire. Nonna Ester stava uscendo, sola, senza salutare e senza dire una parola. Subito dietro di lei la porta si era richiusa senza rumore. Sebbene l’amassi, in quel momento nonna mi sembrò l’essere più spettrale che avessi mai visto. Portava il davanti dello scialle a coprire naso e bocca e solo gli occhi spuntavano fuori. Aveva le braccia incrociate sul petto, sotto lo scialle, quasi vi dovesse tenere nascosto qualcosa. Non mi notò e camminò svelta verso casa senza mai voltarsi. Per fortuna conoscevo una scorciatoia e riuscii a rientrare prima di lei, anche se quando fu a casa nonna non venne a controllare che io fossi a letto. Doveva essere notte inoltrata, forse le due, eppure accese il fuoco. Incuriosita sbirciai dal buco della serratura e vidi che vi gettava dentro un piccolo martelletto di legno. Si era tolta lo scialle e stuzzicava le fiamme affinchè bruciassero completamente quel piccolo arnese. Incapace di capire il senso di tutto quello a cui avevo assistito quella notte mi rimisi a letto e il giorno dopo mi costrinsi a trattenere la curiosità e a non chiedere nulla a nonna Ester. Qualcosa mi diceva che si sarebbe arrabbiata.

Dopo quella notte successe altre volte che uscisse, ma io non la seguii più. Quando il mio tempo arrivò trovai le risposte a tutte le domande. Ero stata paziente ed ero stata premiata, anche se mai avrei voluto imparare ciò che mi era stato insegnato.

Ma ora il momento di uscire è arrivato. Diversamente da nonna Ester io controllo sempre che Marianna dorma nel suo letto prima di indossare lo scialle. Non voglio che la bambina si spaventi. Io non mi sono mai sposata e non ho mai avuto figli perché forse questo era il mio destino. Una come me non avrebbe mai potuto dare la vita. Avrebbe solo potuto compiere atti pietosi. Ero una predestinata. Ma adesso è il momento di andare, è buio e anche se fuori non fa freddo devo comunque coprire il capo con lo scialle. Rigiro il lembo attorno alla bocca, prendo su matzoccu ed esco. Domani mattina la campana di Nostra Signora della Neve avvertirà la popolazione che questa notte qualcuno è morto.

martedì 8 gennaio 2013

I diversi colori del carnevale in Sardegna

di Federica SELIS
Merdùle - Ottana

Poco ancora si sa sulle maschere del carnevale tradizionale sardo. Pare d’obbligo ormai, allo scopo del divertimento del pubblico, raggruppare gruppi di mascherate durante i ritrovi paesani o per i carnevali estivi. Tuttavia è poco probabile che da tali incontri si riesca a proporre un’idea puramente conoscitiva delle maschere stesse. Primo perché esse si limitano talvolta ad una semplice sfilata se non ad allietare gli spettatori con gesta strabilianti che poco hanno a che vedere con il loro ruolo rituale; in secondo luogo, molte tra esse tendono a confondersi per la similarità degli elementi che compongono l’abbigliamento; la terza ragione, ma non la meno importante, sta nel fatto che in genere, durante questo tipo di manifestazioni o di ritrovi carnevaleschi, ben poco ci si attiene alla caratterizzazione di ogni singola maschera, finendo per assegnare lo stesso ruolo sia a maschere ben conosciute, con una ritualità di gesti consolidata e dovuta alla tradizione, sia a quelle da poco restituite al sapere collettivo.
Prescindendo dalla polemica nata negli ultimi anni che vede contrapposti i paesi di Mamoiada ed Ottana, portatori da sempre del rituale carnevalesco più antico, contro quei paesi in cui il carnevale tradizionale è stato da poco riscoperto, vogliamo portare la nostra analisi su quelle che sono le differenze fra le caratteristiche di ogni tipologia di travestimento. Ciò presuppone, comunque, che prenderemo ad esempio di ogni tipologia quelle che ci sembreranno le maschere più simboliche.
Nel nostro studio abbiamo suddiviso le maschere tradizionali in sei tipologie differenti, ognuna caratterizzata da un determinato tipo di abbigliamento - o di elementi accessori - e da un rituale proprio. Esse sono:

a)            maschere pellite;
b)           maschere a gabbanu;
c)            maschere luttuose;
d)           mascaras serias;
e)           maschere sonore;
f)            carnevali equestri.

MASCHERE PELLITE

Issohadores - Mamoiada
Quando si parla di maschera sarda si tende spesso ad identificare il nome con le maschere pellite. Il riferimento va automaticamente ai Mamuthones di Mamoiada e ai Merdùles di Ottana. Per molti Sardi stessi la differenziazione tra le due risulta difficoltosa, tanto che molto spesso si tende a confonderle tra loro, non solo nel nome ma anche nell’abbigliamento. Entrambe dotate di pelli, campanacci e maschera facciale, sono invece molto diverse sia negli elementi sia nel rituale. Ciò senza tener conto che ai Mamuthones si accompagnano imprescindibilmente gli Issohadores, non presenti invece nel carnevale ottanese. Tuttavia sebbene sotto l’aspetto della figura esse possano creare confusione ad un occhio sbrigativo, la maschera dei Mamuthones può far tipologia a sé, in quanto il rituale da essa proposto, proprio per la presenza degli Issohadores e per la caratteristica della rappresentazione, non trova eguali riscontri in nessun altra rappresentazione carnevalesca isolana.
Non lo stesso si può dire per il travestimento ottanese. In esso infatti si ritrovano tutte le caratteristiche del carnevale pellito sardo in cui principalmente spiccano le due figure di dominante e dominato. Tuttavia all’interno della maschera pellita è possibile operare una suddivisione in due ulteriori categorie: quella in cui sono presenti più dominatori e più dominati (in genere uomo dominatore e animale dominato) e quella in cui a più dominatori sottostà un solo dominato. Della prima categoria si citano come esempio i Merdùles di Ottana, gli Urthos e Buttudos di Fonni, i Corongiaius di Laconi e sa Facciola Meanesa di Meana Sardo, mentre alla seconda categoria appartengono le maschere de s’Urtzu e sos Bardianos di Ula Tirso, dei Mamutzones di Samugheo e di sos Colonganos di Austis, solo per citarne alcune. In queste ultime è presente la personificazione della Maskinganna, un diavolo nell’interpretazione dei Sardi, raffigurato da un attore che porta sul capo la testa - a cui non è stato tolto il pelo - di una capra appena uccisa, la cui pelle scende lungo la schiena di colui che l’indossa (Ula Tirso, Samugheo). In alcuni travestimenti (Austis, Orani) sono invece la testa e la pelle di un cinghiale ad essere indossate dall’attore. In ultima analisi, si può riassumere dicendo che nella prima categoria si ritrovano quelle rappresentazioni che mettono in scena il difficile rapporto tra uomo e bestia, mentre nella seconda si evidenzia l’interazione tra uomo e demone, in cui a vincere è sempre l’essere umano. Si distingue tra le altre su Battileddu di Lula, per via della brutalità piuttosto cruenta della rappresentazione scenica. 

GLI ELEMENTI DEL MASCHERAMENTO

Mamutzones - Samugheo
Sos Colonganos - Austis
Cominciamo dall’aspetto pellito della maschera. Questo è forse l’elemento più comune in Sardegna: la pelle di pecora, o di caprone, o di montone (ancora di volpe o martora indossata sul capo come ad Austis). Portata al rovescio, cioè con il pelo a vista, ricopre il corpo dal collo fino alle ginocchia. Quasi sempre bianca, ma anche marrone (Austis), nera solo a Mamoiada, in alcuni paesi (Samugheo, Ula Tirso) può essere anche piccola e marrone. Talvolta può comprendere un copricapo (Fonni, Samugheo, Neoneli, Laconi, Cuglieri, Austis, Sinnai), nelle maschere più antiche esso è sostituito da un fazzoletto nero (Ottana, Mamoiada) oppure è accompagnato da corna (Samugheo, Neoneli), solo in un caso (Cuglieri) è presente un unico corno di capra sopra la fronte. Non sempre alle pelli si accompagna una maschera (Ottana, Mamoiada, Laconi, Austis, Meana Sardo), perché spesso il viso è celato solamente grazie alla “tintura” nera (su tintieddu) data dalla cenere del sughero spalmata sulla faccia (Fonni, Samugheo, Neoneli, Sinnai). L’unica eccezione anche in questo caso è Cuglieri, che al posto della cenere nera, e in conformità al colore generale della maschera, usa spalmare il viso di un’argilla molto particolare, di colore giallastro. I carnevali più antichi mostrano anche i rituali più complessi, un passo ben definito e preciso e diverse tipologie di maschere che entrano in rapporto tra loro, pur all’apparenza slegate per fisionomia e costume, ma tutte partecipanti attive dello stesso rito. Caratteristica peculiare e immancabile è il frastuono: tutte le maschere pellite (eccetto Fonni ), soprattutto la parte soggetta, portano infatti addosso oggetti atti a produrre grande chiasso. Per la stragrande maggioranza delle volte si tratta di campanacci e campanelle, di diverse dimensioni e portati perlopiù a grappolo a tracolla sul busto (Ottana) o in file ordinate per ordine decrescente sistemati sulla schiena (Mamoiada, Samugheo) e tenuti stretti al petto con robuste cinghie. Alcune tra le maschere odierne (Austis, Neoneli) ai campanacci sostituiscono ossi di animali e, solo in un caso specifico (Cuglieri), grosse conchiglie rosa di mare (bivalvi), tanto che il nome della maschera, Is Cotzulados, deriva proprio da questo particolare. È da far notare comunque che gli ossi sono presenti all’interno dei campanacci come batacchio. Altro oggetto che entra di rigore come strumento di questa tipologia di maschere è il bastone (su matzoccu), presente e fondamentale in quasi tutti i travestimenti (anche in questo caso Fonni si discosta), entra di prepotenza nella funzionalità del rito. Altra componente che entra in gioco nelle maschere di Ottana e Mamoiada (sostituita in quella di Fonni da una catena) è “sa soca” o “soha” – da qui il termine Issohadore della maschera mamoiadina -, una lunga striscia di cuoio (odiernamente sostituita a Mamoiada da una corda realizzata dall'intreccio di più funi) che i Boes di Ottana tengono legata in vita affinchè il Merdùle possa tenerli a bada. A Mamoiada viene utilizzata a mò di lazo per acchiappare persone a caso dal pubblico, nella maggior parte dei casi si tratta di giovani donne. Fino a pochi decenni fa era comunque d'uso, anche ad Ottana, per il Merdùle "issocare" il Boe.

Si ringrazia per la gentile collaborazione Franco Cuccu di Ottana.

Fine prima parte

lunedì 10 dicembre 2012

L'ancestrale rito delle maschere sarde


di Federica Selis


Che il Carnevale abbia inizio!


 Il rintocco delle campane della chiesa annuncia l’uscita della processione. È il 16 gennaio, la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate, ma la messa verrà celebrata questa sera. S’Ogulone (l’enorme falò) arde già da alcune ore su un lato della piazza, mentre il centro è lasciato libero, perché quando arriverà la notte la gente ballerà.  Il lamentoso corteo discende lungo il breve tragitto seguendo il Cristo in croce, in un lento e monotono salmodiare. Il sacerdote compirà i tre giri attorno al fuoco e benedirà le fiamme, mentre la statua di Sant’Antonio procede alta sopra tutti, il volto ligneo illuminato dalle fiamme in contrapposizione con le grandi maschere, che da quelle stesse fiamme stanno per essere divorate. Intanto il lungo corteo di donne in abiti scuri lo segue senza mai smettere di pregare e gli astanti si fanno il segno della croce. La sera è calata, e la processione non è ancora rientrata in chiesa che già si ode in lontananza il rumore dei campanacci. La processione dei fedeli si disperde nelle strade in attesa del rito propiziatorio vero e proprio, quello dei padri e dei nonni, quello che la gente di questo piccolo centro della Barbagia ancora porta con sè. E lì, ancora lontani, loro, i Merdùles, sono in procinto di partire: il Boe scalpita mentre il Merdùle tenta di tenere a freno la sua trepidante irruenza. La tensione dell’attesa è palpabile nei volti degli spettatori che attendono di godere del loro spettacolo. E finalmente eccoli muoversi e iniziare la sfilata, scendere, calare, a passo cadenzato e leggero, fino alla piazza principale, fino al fuoco dedicato al Santo che salvò la terra dal congelamento. Arrivano finalmente i Merdùles e compiono i tre giri in senso antiorario attorno al grande falò, gli stessi tre giri che poco prima avevano percorso la Santa Croce e Sant’Antonio con in mano il bastone di ferula che gli fu utile per riportare il fuoco sulla terra. Il rumore dei pesanti campanacci dei Boes, il passo greve e affaticato dei tristi Merdùles, l’ironico terrore causato dalla presenza della Filonzana, la magia dell’atmosfera creata da questi suoni unita alla gioia della festa ora sostituiscono il calmo e monotono incedere della processione: è questo quello che tutti attendevano ed eccolo finalmente iniziare. È la sera del 16 gennaio, è la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate ed ecco, finalmente: il carnevale è iniziato!

Un affascinante viaggio nel favoloso mondo arcaico: il rituale

Il carnevale sardo è un rituale ancestrale che si ripercorre come un brivido che scuote da palmo a palmo le zone più interne, recondite e profonde di questo cuore di Sardegna. La Barbagia, ancora tanto sconosciuta e segreta da essere riuscita a conservare e tramandare i suoi gesti e i suoi rituali, trasforma le sue leggende in emozionanti situazioni reali. Da quando ad Ottana la prima uscita dei Merdùles dà inizio al carnevale, in tutta questa parte così misteriosa ed arcana della Sardegna è possibile osservare gli antichi riti farsi di nuovo realtà. A Mamoiada l’inizio del carnevale è celebrato dall’uscita dei Mamuthones. Dal 1984, anno in cui la Pro Loco riuscì a ridare vigore a questa tradizione, ogni rione dà mostra di sé in quella che potrebbe sembrare una competizione per il falò più bello. Tutti gli abitanti di Mamoiada, nessuno escluso, si preparano a dare vita al rito che più di tutti ha reso celebre questo angolo di Barbagia. I Mamuthones saltano, danzano attorno ai grandi fuochi, che possono anche raggiungere il numero di 40, accompagnati dal suono cadenzato e costante dei campanacci che portano sulla schiena. Sono le loro maschere mute, scure, a dare quel sapore di arcaico e misterioso a questa festa, perché di festa si tratta, sebbene sia la trepidanza delle fiamme a scandirne il ritmo anzichè il chiasso di una musica assordante. Solo la benedizione del prete, la sera prima, durante quello che viene chiamato “Su Pesperu”, anticipa questo rito arcano, mentre l’uomo di chiesa benedice le fiamme, prelevando da esse le prime braci e facendo i tre giri di rito. Ma il 17 gennaio il fuoco è onorato solo dal passaggio di queste maschere ancestrali, che si riprendono così il loro ruolo, scacciando con il loro assordante frastuono gli spiriti malevoli, e rinnovando ancora una volta l’antico rito della fertilità, ora mascherato sotto il nome di carnevale.

Carnevale come simbolo di sacrificio

Riproposizione di riti propiziatori e millenari, il carnevale in Sardegna non ha nulla a che vedere con la sarcastica ed allegra esuberanza dei carnevali forse più noti (Viareggio, Cento, Rio de Janeiro). Il carnevale sardo si libera della semplice accezione di festa allegorica che caratterizza questi carnasciali e ritrova i suoi gesti e suoi rituali in antiche e recondite tradizioni ancestrali. Chi da sempre porta avanti questa tradizione conosce bene il significato della riproposizione del rito, che niente ha a che fare con la stravaganza dei costumi del resto della penisola. La sola riproposizione del nome stesso in lingua sarda, “Carrasegare” o “Carrasecare” o “Carrasegai”, riconduce ad un significato molto differente dalla parola italiana “Carnevale”. “Carra – segare”, da alcuni interpretato come “carne da tagliare”, ricorda il sacrificio che nel carnevale sardo è spesso richiesto e che come tale deve avere una vittima, o un “capro espiatorio”, che dovrà sottostare alla fine scontata del rituale.

Un pericolo per la Chiesa

L’arrivo del capodanno sardo coincideva, almeno fino al secolo scorso, con l’inizio dell’annata agraria. Si celebrava in settembre, mese in cui il grande proprietario terriero, Su Donnu, chiudeva i contratti con i suoi subalterni. Era questo il momento in cui tutti i riti propiziatori legati alla fertilità dei campi dovevano avere luogo, ed era proprio in quest’occasione che si aveva a Mamoiada la prima uscita dei Mamuthones. Più tardi, l’evento dell’uscita della maschera era stato rimandato al 26 Dicembre, giorno di Santo Stefano, fino a recedere al momento in cui “sa prima essia” (la prima sortita) ha iniziato a coincidere con la data odierna del 17 Gennaio. Ma perché è accaduto questo? Come  si è detto l’uscita dei Mamuthones ha sempre coinciso con la celebrazione dei riti propiziatori per l’annata agraria. Alcuni anziani mamoiadini narrano che veniva richiamata l’uscita delle maschere in qualunque momento dell’anno se ne ritenesse utile l’azione. Era il frastuono dei loro campanacci che avrebbe scosso i cieli e fatto arrivare la pioggia, e insieme avrebbe allontanato gli spiriti maligni: simbolo di fertilità ma anche di buon auspicio e fortuna, quindi. Non si ha invece notizia sull’uscita anticipata dei Merdùles, se non per il ricordo di alcuni anziani relativo alla ricorrenza della luna nuova d’inverno (il 21 Dicembre circa). Tuttavia, non è difficile credere che anche ad Ottana le maschere pellite, soprattutto se Boes, venissero richiamate in casi di necessità della comunità. Non si faceva ricorso alla chiesa, quindi, e la gente credeva ancora nei riti propiziatori pagani. Ma erano davvero pagani questi riti? Fino alla venuta del cristianesimo in realtà essi erano la rappresentazione della vera religione, quella esistita da sempre in Sardegna, divenuta pagana solo dopo l’avvento della cristianità. Ma nonostante la forte repressione della Chiesa, la caccia alle streghe operata durante l’inquisizione e il pesante proselitismo compiuto nell’isola, il clero ha sempre dovuto combattere per predominare sulle credenze popolari. Di fatto la repressione operata dai gesuiti non ha mai avuto gran esito in Sardegna e molto spesso il Vaticano si è trovato costretto a minacciare di scomunica i prelati operanti sull’isola, accusati di troppa debolezza per frapporsi al volere della gente. In vari concilii vaticani, fino addirittura alla fine della seconda metà del secolo scorso, la Chiesa centrale ancora spronava il clero sardo a non sottomettersi ai rituali di magia operati dalla popolazione, poiché essa ancora si ostinava a praticarli. Tuttavia, nonostante le diverse e sempre più pressanti ammonizioni da parte del Pontefice e la forte ingerenza dei gesuiti nell’isola, la credenza popolare era talmente radicata e potente, forte della sua millenaria storia, da non aver mai permesso alla religione cristiana di vincere, tanto da costringerla ad integrarsi con questa e farne propri alcuni riti pur di ingraziarsi la fede della popolazione. Nel 1700 il padre gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo, in compagnia del fedele accompagnatore, il neonelese Bonaventura Licheri – la cui identità non è del tutto comprovata –, percorse tutta la Sardegna con l’intenzione di portare la cristianità nell’isola ancora profondamente pagana. Dal 1769 al 1775 decise di dedicarsi in modo particolare alle zone dell’interno, da Ortueri ad Ottana, passando per Samugheo, Mamoiada, Austis ed altre località del Sassarese, in cui si diceva si praticassero ancora culti pagani “in numen santu”, ossia nel nome del Signore. In queste località si dice egli giungesse in periodo carnevalesco, sorprendendo gli abitanti nella professione del rituale in maschera. Le sue prediche, rimaste nella memoria popolare per via della loro violenza, prevedevano la minaccia di gravi pene fino alla scomunica definitiva. In un tempo in cui le masse popolari non erano immuni dalla superstizione la parola di padre Vassallo pareva avere grande potere. Si ipotizza che con molta probabilità non fu tanto ciò che disse quanto i suoi metodi coercitivi ad imporre obbedienza nella gente, convincendola alla rinuncia di riti considerati demoniaci. Fu così che, secondo ciò che si riporta, molti travestimenti mascherati dell’isola furono abbandonati. Non si spiega però perché in alcuni paesi, quali Ottana e Mamoiada, la tradizione del rituale carnevalesco con Merdùles e Mamuthones si sia preservata nel tempo, al contrario di quelli che invece abbandonarono del tutto quest’uso. A ragion veduta si può affermare che, sebbene l’abbandono definitivo non sia mai avvenuto in questi paesi, appaia una sorta di tacito compromesso, stilato tra Chiesa e popolo, il fatto che l’uscita delle maschere avvenga al giorno d’oggi in una data precisa, quella del 16 gennaio, come già detto. Compromesso che vede la cerimonia cristiana accompagnare e mischiarsi al rituale arcaico, compreso di tutti i suoi elementi – accensione del falò, presenza delle maschere pellite, soprattutto dei campanacci, giro delle maschere attorno al fuoco, ballo tondo -, ed il sacerdote cristiano benedire con acqua e braci un fuoco che, sebbene porti nome di santo, in realtà è un chiaro segno della vittoria del paganesimo, o meglio della vecchia religione, su quella nuova.

Maschere antiche o pura invenzione?

 
Come si è evinto finora, nel “Carrasegare” (il carnevale) isolano, il mascheramento non è fine a sé stesso, ma teso a riprodurre il simbolo perenne di qualcosa di radicato nella tradizione culturale dei  Sardi. Esso si ripropone specificatamente in poche località ma è patrimonio di tutta l’Isola, tanto che diverse regioni della Sardegna, quali le Barbagie o il confine oristanese con queste (come anche del Cagliaritano), hanno, da alcuni anni a questa parte, sentito il desiderio di ripristinare una propria maschera, in alcuni casi forse già esistente ma ormai dimenticata, ed un proprio rituale attinente a questa. L’autenticità del mascheramento è dato dalla tradizione di riproporre il rituale da sempre, fino da epoche in cui il ricordo non riesca ad arrivare, e prevede il fatto che questo non sia mai stato abbandonato. Tuttavia, sembra assai strano che, vista l’importanza rituale e propiziatoria che queste maschere avevano nel passato, esistessero solo in tre paesi della Sardegna (Ottana, Mamoiada, Orotelli). Fatto sta che in tantissime località gli anziani conservano ancora il ricordo di manifestazioni carnevalesche con maschere zoomorfe con cui usavano divertirsi in gioventù. Tuttavia ciò che al giorno d’oggi si vede spopolare lungo le strade di alcuni paesi non sempre trova completa attinenza con i ricordi degli anziani, aggiungendo di fatto elementi e atteggiamenti atti ad attirare l’attenzione di un pubblico – soprattutto se poco esperto – facilmente suggestionabile da atti selvaggi e maschere che sembrano far a gara tra loro per apparire sempre più mostruose. Perso quasi del tutto il significato vero del rituale proposto da questi mascheramenti, al giorno d’oggi si assiste ad un fertile rifiorire di maschere più o meno autentiche. Non rifacendosi a tradizioni ben precise e usuali da sempre, alcune di queste, ben lungi dalla bellezza e dall’esaltazione emotiva concessa dalle parenti più famose, rischiano di apparire a volte fuori contesto. Spesso, ma non sempre, infatti, la riproposizione di un travestimento dimenticato non tende alla preservazione del rituale antico, ma bensì all’impressione che le gesta sempre più straordinarie di queste maschere incutono nel visitatore. Il danno che ne consegue non è da poco, in quanto il rischio è quello di dare, ad uno spettatore poco esperto, l’idea piuttosto errata di culti mai realmente esistiti in Sardegna. Per alcune di loro, lontane dal semplice ricordo degli anziani, la ricreazione si basa essenzialmente sulle poesie di quel Bonaventura Licheri di cui si è parlato precedentemente, che durante i suoi sopralluoghi in compagnia del padre Vassallo aveva l’abitudine di descrivere nel dettaglio sia il rituale che i travestimenti utilizzati. Tuttavia la reale autenticità sia di questi scritti che del loro autore è ancora da definire e lo studio sulle maschere antiche è ancora lontano dall’essere concluso.

domenica 14 ottobre 2012

"IS ANIMEDDAS" 31 Ottobre

di Attilio Piras
Consultando feste, sagre a Decimoputzu, spesso viene segnalata per il 31 Ottobre, Festa de Is Animeddas". E' una festa caduta in disuso da molti anni, chiedendo a qualche anziano,solo una zia sapeva di questa festa in paese e i suoi ricordi erano in sintonia con questa, per così dire, ricerca. Naturalmente la ricerca è aperta e tra i commenti del blog c'è spazio per tutti.
"IS ANIMEDDAS" è una tradizione singolare che si festeggia in più parti della Sardegna e Decimoputzu con
Seui e Orani vengono segnalati più volte. La festa vuole essere una sorta di omaggio ai defunti, anche se lo spirito originario della consuetudine mirava a far si che i poveri recuperassero qualche provvista per l'inverno. Si trattava, infatti, di una raccolta che veniva effettuata da gruppi di bambini, i quali giravano per le abitazioni chiedendo 1/ Is Pannixeddas", "Is Animeddas" o "Is Paschisceddas", e cioè un obolo di pane o frutta o dolci che, peraltro, nessuno rifiutava, (si rischiava di venire indicati come "susuncus", "pistincas" avari ). La consuetudine è ancora viva a Sinnai e riproposta a Seui. Una tradizione molto simile sopravive a Tempio Pausania, dove i bambini vanno di casa in casa per ricevere castagne o frutta secca, oggi persino denaro. A Santa Giusta, durante la notte del 1 novembre, un giovane, con una veste che rappresenta una figura allegorica chiamata" Maria punt'e oru", gira per le case raccogliendo doni che nessuno rifiuta. In Barbagia, Fonni, Gavoi, Orani, la stessa festa viene chiamata "Su Prugadoriu", "Su Mortu Mortu". A Lode' po Su Prugadoriu, sono i chierichetti a girare per le case col suono delle campane a mezzogiorno, guidati da due anziani del servizio religioso. Tutto ciò che viene raccolto è destinato ad una cena comunitaria. Qualche agricoltore, invece, macella una pecora o una capra, le cui carni, anticamente, venivano distribuite ai poveri, mentre oggi sono destinate a banchetti fra amici e parenti. La stessa tradizione è a Siniscola, è definita" Su Peti Coccone", la frase che i bambini pronunciano per chiedere l'obolo. In molti paesi del Logudoro, nella ricorrenza, si prepara una tavola imbandita di tutto punto, fata eccezione per le posate, è il cosiddetto "pasto dei defunti", che poi viene devoluto ai poveri. In qualche paese una questua di "grano per i poveri", viene effettuata dai sacrestani. A Bitti abbiamo un'altra tradizione: le donne siedono sul pavimento della chiesa tenendo in mano" sos tumulos", scodelle di incenso, rosmarino e un cero acceso. In altri centri dell'isola, soprattutto quelli dove si conservano ancora vive le usanze agricole, per tradizione si conservano i "dolci dei morti", in particolare" pan'e saba" e "pabassinas". Oggi si trovano in vendita in tutte le pasticcerie, ma in passato venivano preparate in case delle massaie e ricambiavano il dono con omaggio di melagrana e mele cotogne o di crisantemi coltivati nel proprio giardino. L'usanza della questua è attuale anche in Ogliastra, a Lanusei e Baunei. Molto diffusa e pure la consuetudine di offrire agli ospiti una pabassina e un bicchiere di vino nuovo. Un po' dappertutto, si usa tenere davanti alla fotografia dei cari defunti" Sa Lantia", un bicchiere pieno d'olio in cui si fa galleggiare una "mariposa"(un triangolo di latta con pezzettini di sughero nelle punte e un foro al cento, attraverso il quale passa un lucignolo), che resta accesa per tutto il mese, naturalmente aggiungendo l'olio necessario per l'alimentazione. A Orani la tradizione de "Is Animeddas", riproposta nel 1990, ha particolari caratteristiche: è basata su zucche coltivate dagli stessi Oranesi, che vengono svuotate e intagliate in modo da raffigurare teschi. Questi intendono simboleggiare gli spiriti dei parenti defunti che, nella ricorrenza del2 Novembre, ritornano dai propri familiari per rinnovare il ricordo e far si che non soffrano per la loro dipartita. Provvisti di queste zucche, moltissimi ragazzi visitano le case del paese per chiedere offerte di dolci e frutta e questo in paese viene chiamato "Su Mortu Mortu". Ricordo un mio collega di San Vito o Muravera, durante il pranzo il 1o o il 2 novembre, nella mensa aziendale a Cagliari, passava in giro tra i tavoli a offrire un bicchiere del suo vino nuovo, ricordava i nomi dei colleghi defunti, lo faceva in un modo quasi religioso, a noi sembrava una cosa strana, per fortuna, anche senza conoscere le usanze del suo paese si creava qualche minuto di silenzio: "Scusa Gianfranco solo oggi capisco interamente le tua nobili intenzioni".