di Federica Selis
Che il Carnevale abbia inizio!
Il rintocco delle campane della chiesa annuncia l’uscita
della processione. È il 16 gennaio, la vigilia della festa di Sant’Antonio
Abate, ma la messa verrà celebrata questa sera. S’Ogulone (l’enorme falò) arde
già da alcune ore su un lato della piazza, mentre il centro è lasciato libero,
perché quando arriverà la notte la gente ballerà. Il lamentoso corteo discende lungo il breve
tragitto seguendo il Cristo in croce, in un lento e monotono salmodiare. Il
sacerdote compirà i tre giri attorno al fuoco e benedirà le fiamme, mentre la
statua di Sant’Antonio procede alta sopra tutti, il volto ligneo illuminato
dalle fiamme in contrapposizione con le grandi maschere, che da quelle stesse
fiamme stanno per essere divorate. Intanto il lungo corteo di donne in abiti
scuri lo segue senza mai smettere di pregare e gli astanti si fanno il segno
della croce. La sera è calata, e la processione non è ancora rientrata in
chiesa che già si ode in lontananza il rumore dei campanacci. La processione
dei fedeli si disperde nelle strade in attesa del rito propiziatorio vero e
proprio, quello dei padri e dei nonni, quello che la gente di questo piccolo
centro della Barbagia ancora porta con sè. E lì, ancora lontani, loro, i
Merdùles, sono in procinto di partire: il Boe scalpita mentre il Merdùle tenta
di tenere a freno la sua trepidante irruenza. La tensione dell’attesa è
palpabile nei volti degli spettatori che attendono di godere del loro
spettacolo. E finalmente eccoli muoversi e iniziare la sfilata, scendere,
calare, a passo cadenzato e leggero, fino alla piazza principale, fino al fuoco
dedicato al Santo che salvò la terra dal congelamento. Arrivano finalmente i
Merdùles e compiono i tre giri in senso antiorario attorno al grande falò, gli
stessi tre giri che poco prima avevano percorso la Santa Croce e Sant’Antonio
con in mano il bastone di ferula che gli fu utile per riportare il fuoco sulla
terra. Il rumore dei pesanti campanacci dei Boes, il passo greve e affaticato
dei tristi Merdùles, l’ironico terrore causato dalla presenza della Filonzana,
la magia dell’atmosfera creata da questi suoni unita alla gioia della festa ora
sostituiscono il calmo e monotono incedere della processione: è questo quello
che tutti attendevano ed eccolo finalmente iniziare. È la sera del 16 gennaio,
è la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate ed ecco, finalmente: il
carnevale è iniziato!
Un affascinante viaggio nel favoloso mondo arcaico: il
rituale
Il carnevale sardo è un rituale ancestrale che si ripercorre
come un brivido che scuote da palmo a palmo le zone più interne, recondite e
profonde di questo cuore di Sardegna. La Barbagia, ancora tanto sconosciuta e
segreta da essere riuscita a conservare e tramandare i suoi gesti e i suoi
rituali, trasforma le sue leggende in emozionanti situazioni reali. Da quando
ad Ottana la prima uscita dei Merdùles dà inizio al carnevale, in tutta questa
parte così misteriosa ed arcana della Sardegna è possibile osservare gli
antichi riti farsi di nuovo realtà. A Mamoiada l’inizio del carnevale è
celebrato dall’uscita dei Mamuthones. Dal 1984, anno in cui la Pro Loco riuscì
a ridare vigore a questa tradizione, ogni rione dà mostra di sé in quella che
potrebbe sembrare una competizione per il falò più bello. Tutti gli abitanti di
Mamoiada, nessuno escluso, si preparano a dare vita al rito che più di tutti ha
reso celebre questo angolo di Barbagia. I Mamuthones saltano, danzano attorno
ai grandi fuochi, che possono anche raggiungere il numero di 40, accompagnati
dal suono cadenzato e costante dei campanacci che portano sulla schiena. Sono
le loro maschere mute, scure, a dare quel sapore di arcaico e misterioso a
questa festa, perché di festa si tratta, sebbene sia la trepidanza delle fiamme
a scandirne il ritmo anzichè il chiasso di una musica assordante. Solo la
benedizione del prete, la sera prima, durante quello che viene chiamato “Su
Pesperu”, anticipa questo rito arcano, mentre l’uomo di chiesa benedice le
fiamme, prelevando da esse le prime braci e facendo i tre giri di rito. Ma il
17 gennaio il fuoco è onorato solo dal passaggio di queste maschere ancestrali,
che si riprendono così il loro ruolo, scacciando con il loro assordante
frastuono gli spiriti malevoli, e rinnovando ancora una volta l’antico rito
della fertilità, ora mascherato sotto il nome di carnevale.
Carnevale come simbolo di sacrificio
Riproposizione di riti propiziatori e millenari, il
carnevale in Sardegna non ha nulla a che vedere con la sarcastica ed allegra
esuberanza dei carnevali forse più noti (Viareggio, Cento, Rio de Janeiro). Il
carnevale sardo si libera della semplice accezione di festa allegorica che
caratterizza questi carnasciali e ritrova i suoi gesti e suoi rituali in
antiche e recondite tradizioni ancestrali. Chi da sempre porta avanti questa
tradizione conosce bene il significato della riproposizione del rito, che
niente ha a che fare con la stravaganza dei costumi del resto della penisola.
La sola riproposizione del nome stesso in lingua sarda, “Carrasegare” o
“Carrasecare” o “Carrasegai”, riconduce ad un significato molto differente
dalla parola italiana “Carnevale”. “Carra – segare”, da alcuni interpretato
come “carne da tagliare”, ricorda il sacrificio che nel carnevale sardo è
spesso richiesto e che come tale deve avere una vittima, o un “capro
espiatorio”, che dovrà sottostare alla fine scontata del rituale.
Un pericolo per la Chiesa
L’arrivo del capodanno sardo coincideva, almeno fino al
secolo scorso, con l’inizio dell’annata agraria. Si celebrava in settembre,
mese in cui il grande proprietario terriero, Su Donnu, chiudeva i contratti con
i suoi subalterni. Era questo il momento in cui tutti i riti propiziatori
legati alla fertilità dei campi dovevano avere luogo, ed era proprio in
quest’occasione che si aveva a Mamoiada la prima uscita dei Mamuthones. Più
tardi, l’evento dell’uscita della maschera era stato rimandato al 26 Dicembre,
giorno di Santo Stefano, fino a recedere al momento in cui “sa prima essia” (la
prima sortita) ha iniziato a coincidere con la data odierna del 17 Gennaio. Ma perché
è accaduto questo? Come si è detto
l’uscita dei Mamuthones ha sempre coinciso con la celebrazione dei riti
propiziatori per l’annata agraria. Alcuni anziani mamoiadini narrano che veniva
richiamata l’uscita delle maschere in qualunque momento dell’anno se ne
ritenesse utile l’azione. Era il frastuono dei loro campanacci che avrebbe
scosso i cieli e fatto arrivare la pioggia, e insieme avrebbe allontanato gli
spiriti maligni: simbolo di fertilità ma anche di buon auspicio e fortuna,
quindi. Non si ha invece notizia sull’uscita anticipata dei Merdùles, se non
per il ricordo di alcuni anziani relativo alla ricorrenza della luna nuova
d’inverno (il 21 Dicembre circa). Tuttavia, non è difficile credere che anche
ad Ottana le maschere pellite, soprattutto se Boes, venissero richiamate in
casi di necessità della comunità. Non si faceva ricorso alla chiesa, quindi, e
la gente credeva ancora nei riti propiziatori pagani. Ma erano davvero pagani
questi riti? Fino alla venuta del cristianesimo in realtà essi erano la rappresentazione
della vera religione, quella esistita da sempre in Sardegna, divenuta pagana
solo dopo l’avvento della cristianità. Ma nonostante la forte repressione della
Chiesa, la caccia alle streghe operata durante l’inquisizione e il pesante
proselitismo compiuto nell’isola, il clero ha sempre dovuto combattere per
predominare sulle credenze popolari. Di fatto la repressione operata dai
gesuiti non ha mai avuto gran esito in Sardegna e molto spesso il Vaticano si è
trovato costretto a minacciare di scomunica i prelati operanti sull’isola,
accusati di troppa debolezza per frapporsi al volere della gente. In vari
concilii vaticani, fino addirittura alla fine della seconda metà del secolo
scorso, la Chiesa centrale ancora spronava il clero sardo a non sottomettersi
ai rituali di magia operati dalla popolazione, poiché essa ancora si ostinava a
praticarli. Tuttavia, nonostante le diverse e sempre più pressanti ammonizioni
da parte del Pontefice e la forte ingerenza dei gesuiti nell’isola, la credenza
popolare era talmente radicata e potente, forte della sua millenaria storia, da
non aver mai permesso alla religione cristiana di vincere, tanto da costringerla
ad integrarsi con questa e farne propri alcuni riti pur di ingraziarsi la fede
della popolazione. Nel 1700 il padre gesuita piemontese Giovanni Battista
Vassallo, in compagnia del fedele accompagnatore, il neonelese Bonaventura
Licheri – la cui identità non è del tutto comprovata –, percorse tutta la
Sardegna con l’intenzione di portare la cristianità nell’isola ancora
profondamente pagana. Dal 1769 al 1775 decise di dedicarsi in modo particolare
alle zone dell’interno, da Ortueri ad Ottana, passando per Samugheo, Mamoiada,
Austis ed altre località del Sassarese, in cui si diceva si praticassero ancora
culti pagani “in numen santu”, ossia nel nome del Signore. In queste località
si dice egli giungesse in periodo carnevalesco, sorprendendo gli abitanti nella
professione del rituale in maschera. Le sue prediche, rimaste nella memoria
popolare per via della loro violenza, prevedevano la minaccia di gravi pene
fino alla scomunica definitiva. In un tempo in cui le masse popolari non erano
immuni dalla superstizione la parola di padre Vassallo pareva avere grande
potere. Si ipotizza che con molta probabilità non fu tanto ciò che disse quanto
i suoi metodi coercitivi ad imporre obbedienza nella gente, convincendola alla
rinuncia di riti considerati demoniaci. Fu così che, secondo ciò che si
riporta, molti travestimenti mascherati dell’isola furono abbandonati. Non si
spiega però perché in alcuni paesi, quali Ottana e Mamoiada, la tradizione del
rituale carnevalesco con Merdùles e Mamuthones si sia preservata nel tempo, al
contrario di quelli che invece abbandonarono del tutto quest’uso. A ragion
veduta si può affermare che, sebbene l’abbandono definitivo non sia mai
avvenuto in questi paesi, appaia una sorta di tacito compromesso, stilato tra
Chiesa e popolo, il fatto che l’uscita delle maschere avvenga al giorno d’oggi
in una data precisa, quella del 16 gennaio, come già detto. Compromesso che
vede la cerimonia cristiana accompagnare e mischiarsi al rituale arcaico,
compreso di tutti i suoi elementi – accensione del falò, presenza delle
maschere pellite, soprattutto dei campanacci, giro delle maschere attorno al
fuoco, ballo tondo -, ed il sacerdote cristiano benedire con acqua e braci un
fuoco che, sebbene porti nome di santo, in realtà è un chiaro segno della
vittoria del paganesimo, o meglio della vecchia religione, su quella nuova.
Maschere antiche o pura invenzione?
Come si è evinto finora, nel “Carrasegare” (il carnevale)
isolano, il mascheramento non è fine a sé stesso, ma teso a riprodurre il
simbolo perenne di qualcosa di radicato nella tradizione culturale dei Sardi. Esso si ripropone specificatamente in
poche località ma è patrimonio di tutta l’Isola, tanto che diverse regioni
della Sardegna, quali le Barbagie o il confine oristanese con queste (come
anche del Cagliaritano), hanno, da alcuni anni a questa parte, sentito il
desiderio di ripristinare una propria maschera, in alcuni casi forse già
esistente ma ormai dimenticata, ed un proprio rituale attinente a questa.
L’autenticità del mascheramento è dato dalla tradizione di riproporre il
rituale da sempre, fino da epoche in cui il ricordo non riesca ad arrivare, e prevede
il fatto che questo non sia mai stato abbandonato. Tuttavia, sembra assai
strano che, vista l’importanza rituale e propiziatoria che queste maschere
avevano nel passato, esistessero solo in tre paesi della Sardegna (Ottana,
Mamoiada, Orotelli). Fatto sta che in tantissime località gli anziani
conservano ancora il ricordo di manifestazioni carnevalesche con maschere
zoomorfe con cui usavano divertirsi in gioventù. Tuttavia ciò che al giorno
d’oggi si vede spopolare lungo le strade di alcuni paesi non sempre trova
completa attinenza con i ricordi degli anziani, aggiungendo di fatto elementi e
atteggiamenti atti ad attirare l’attenzione di un pubblico – soprattutto se
poco esperto – facilmente suggestionabile da atti selvaggi e maschere che
sembrano far a gara tra loro per apparire sempre più mostruose. Perso quasi del
tutto il significato vero del rituale proposto da questi mascheramenti, al
giorno d’oggi si assiste ad un fertile rifiorire di maschere più o meno
autentiche. Non rifacendosi a tradizioni ben precise e usuali da sempre, alcune
di queste, ben lungi dalla bellezza e dall’esaltazione emotiva concessa dalle
parenti più famose, rischiano di apparire a volte fuori contesto. Spesso, ma
non sempre, infatti, la riproposizione di un travestimento dimenticato non
tende alla preservazione del rituale antico, ma bensì all’impressione che le
gesta sempre più straordinarie di queste maschere incutono nel visitatore. Il
danno che ne consegue non è da poco, in quanto il rischio è quello di dare, ad
uno spettatore poco esperto, l’idea piuttosto errata di culti mai realmente
esistiti in Sardegna. Per alcune di loro, lontane dal semplice ricordo degli
anziani, la ricreazione si basa essenzialmente sulle poesie di quel Bonaventura
Licheri di cui si è parlato precedentemente, che durante i suoi sopralluoghi in
compagnia del padre Vassallo aveva l’abitudine di descrivere nel dettaglio sia
il rituale che i travestimenti utilizzati. Tuttavia la reale autenticità sia di
questi scritti che del loro autore è ancora da definire e lo studio sulle
maschere antiche è ancora lontano dall’essere concluso.