Fonni, Bosa, Ovodda, Gavoi, Austis
di Federica Selis
FONNI

Come già detto, la
seconda componente del carnevale fonnese è s’Urthu. Il vero significato di
questo termine non è affatto chiaro. Diversi studiosi si sono occupati di
questa questione, arrivando tutti alla stessa conclusione: la parola può
trovare solo due significati plausibili: orso oppure orco. Non è certo che in
Sardegna potessero essere presenti, in epoche arcaiche, gli orsi, fatto sta che
è ben noto ormai che la fauna primordiale si sia di molto modificata negli
ultimi millenni vedendo l’estinzione di specie che un tempo erano presenti e
delle quali rimane tuttora presente, nella lingua e nella toponomastica, il
nome. A sostenere questa prima tesi, inoltre, c’è il fatto che la maschera
carnevalesca dell’orso si ritrovi in diversi altri carnevali, sia nell’Italia
continentale che nell’Europa danubiana, dove molto profonde sono le somiglianze
tra le maschere locali e quelle sarde. Anche il carattere della maschera
fonnese parrebbe rapportarsi a quello selvaggio dell’animale di cui porterebbe
il nome: irruento, imprevedibile, trasgressivo ed irriverente. Ma ciò è vero
anche per l’orco, termine che si presta spessissimo in Sardegna a dar nome a
strutture megalitiche, in particolare a nuraghi e tombe dei giganti, sotto la
locuzione di “Sa Domu ‘e s’Orcu”, “la Casa dell’Orco”, appunto (5). Che il suo nome significhi orco oppure orso,
sta di fatto che quella dell’Urthu è in assoluto la maschera più folle,
irresponsabile e coraggiosa tra tutte quelle sarde.



Testimonianze del passato,
risalenti alla fine dell’800, già parlano anche della figura del "Ceomo", ovvero
il fantoccio di paglia e stracci, vittima e “capro espiatorio” del carnevale
fonnese, colui che prenderà su di sé le colpe di tutti i suoi concittadini
espiandole con la morte al rogo. Della sua triste sorte piangeranno “is Attittadoras”, o “mascaras limpias”, uomini vestiti con
abiti femminili neri che intoneranno il canto di morte, “s’attittu”, per il fantoccio. Canti che poi, con l’incitamento del
pubblico, perderanno presto il loro tragico salmodiare per diventare scurrili e
spesso lascivi.
BOSA
All’inizio canti satirici, lascivi e irridenti, che si spargono per le
vie della cittadina sin dalle prime ore del mattino, prendendosi gioco di quei
concittadini che durante l’anno si son resi protagonisti di scandalo o di
pettegolezzo, man mano che scende la sera e i costumi cambiano si modifica
anche la tipologia del canto, che diventa vero e proprio lamento funebre per il
re Giolzi che pian piano si avvicina alla morte. Ed eccolo il re Giolzi,
pupazzo di canne e stracci, rigorosamente bianco anch’esso, simbolo del
carnevale, capro espiatorio delle colpe della città ma anche dal forte
simbolismo sessuale, per via dei genitali evidenti e messi in mostra. Al culmine
della notte del martedì grasso la sua fine è prossima. I canti funebri lo
accompagnano mentre le fiamme lo avvolgono e le maschere bianche girano attorno
a lui segnando la marcia col potente suono dei tamburi.
Il tema della morte del
fantoccio, del “capro espiatorio” e de “su
teu”, il canto funebre, è presente quindi anche nel particolarissimo carnevale di
Bosa. Qui sono il bianco e nero a farla da padroni, in un incontrarsi e
sovrapporsi dei due colori che si uniscono e si mischiano tra di loro,
mescolandosi. Nero è infatti il colore dell’abito di giorno, bianco è quello
della notte. La giornata più importante del carnevale bosano è il martedì
grasso. Un tempo i festeggiamenti carnascialeschi iniziavano il giorno di
Capodanno e si protraevano fino alla Quaresima. Tutte le domeniche erano
considerate festive, così come i giorni principali del carnevale. Come già
detto, due sono i colori che lo caratterizzano: il nero di giorno e il bianco
quando scende la sera. Le cosiddette “maschere” vestono abiti femminili neri da
vedova. Il capo è coperto da un fazzoletto nero e il viso anche è tinto di
nero. Portano appresso bambolotti smembrati, simbolo di Giolzi morente di
fame, e imitano i lamenti de “is
Attittadorasa” (le piangenti), che rappresentano. Avvicinano i bambolotti
al seno delle spettatrici simulando l’allattamento, affinchè possano sfamare il
bambolotto crudelmente abbandonato dalla madre che ha preferito i
festeggiamenti di carnevale a lui, condannandolo a morir per fame.
La sera tutto cambia. Ilarità e
inneggiamenti al sesso la fanno da padroni in questo carnevale ricco di
simbolismo. La notte le maschere vestono abiti interamente bianchi, con
lenzuola e federe, ma hanno sempre il viso tinto di nero e tra le braccia
portano una lanterna di carta, con cui illuminano le parti intime di tutti i
passanti (soprattutto se femminili) alla ricerca di Giolzi: si dà il caso
infatti che il re Giolzi abbia la predisposizione particolare a nascondersi in
mezzo alle gambe delle donne, nei genitali. Quando infine riescono a trovarlo
ecco che il richiamo «Giolzi, Giolzi! Ciappadu, ciappadu!» echeggia alto tra la
folla. È questo l’inizio del “martirio” del fantoccio, destinato a finire nel
rogo. La prima volta che si viene a contatto con questo carnevale esso può
apparire piuttosto crudo per la presenza del sangue e dello smembramento del
bambolotto.
Ma la distinzione dei due colori
non è la sola particolarità del carnevale di Bosa, considerato realmente
autentico proprio per la sua originalità e profonda diversità dal resto dei
carnevali sardi e non solo, sebbene la tradizione del canto funebre per il
fantoccio del carnevale che finisce al rogo sia popolare in gran parte
dell’Italia continentale: ciò tuttavia gli conferisce anche un carattere di
modernità rispetto ai carnevali pelliti della Barbagia.
OVODDA
Si narra che un tempo ad Ovodda
regnasse un potente tiranno. Per il suo carattere prepotente e dispotico era
stato messo alla gogna e condannato a dover subire la terribile vendetta della
popolazione, che non aveva esitato a vendicare le ingiustizie subite nella
maniera più crudele e impietosa possibile: il rogo del despota ed il suo lancio
giù dal burrone. Si dice che il culmine del carnevale ovoddese voglia riproporre
di anno in anno questa situazione, in cui a conquistar la vittoria era stato il
carattere impavido e coraggioso della comunità di Ovodda (6). Questo carnevale
non fa parte di quei carnevali di recente riscoperta: esiste un video,
realizzato nel 1989 a cura di Paolo Piquereddu, in cui si descrive la fase
finale, ovvero la condanna al rogo del fantoccio. È
questo il protagonista principale di questo carnasciale, che ha come
caratteristica quella di essere celebrato il giorno del Mercoledì delle Ceneri
(Mehuris de Lessia), giornata in cui
tutto il resto della Sardegna e del mondo cattolico in genere si prepara ad
entrare nei rigori della Quaresima. Ad Ovodda ciò non accade, essendo proprio
il mercoledì il giorno in cui il carnevale trova il suo epilogo più tragico.
Scomposto e disordinato, ma soprattutto privo di qualunque regola, il
carnasciale ovoddese non prevede una vera e propria maschera: per le strade del
paese gli abitanti si spargono indossando gli abiti più stravaganti, stracci,
vestiti vecchi e quant’altro faccia all’occorrenza, anche se non è strano
talvolta far l’incontro di qualcuno con indosso una pelle di capra appena
scuoiata e compresa di testa, o anche maschere vestite di pelli di pecora con
annessi chiassosissimi campanacci. Appresso, legati a funi, o sopra carretti, le
maschere possono portare di tutto: da animali vivi chiusi in gabbie, a vecchi
oggetti d’ornamento, ombrelli, ombrelloni da spiaggia, vecchi elettrodomestici
e quant’altro. Non mancano nemmeno gli atti di vandalismo e così ecco sfilare
per le strade maschere con appresso cartelli stradali appena sradicati. Tutto è
permesso durante questo giorno, tutto è lecito, è l’anarchia più totale. L’unica
cosa che non deve assolutamente mancare, e che accomuna tutti i mascherati, è
il viso interamente tinto di nera fuliggine, caratteristica che dà il nome alle
maschere, denominate “is Intintos”, i
tinti. Tra essi sono presenti alcuni “Intinghidores”,
i tinteggiatori, il cui scopo è quello di spalmare di fuliggine di sughero (7)
tutti coloro che incontrano per la strada. Come già detto sono la totale
anarchia e il caos della festa a far da padroni in questo carnevale, che vede
il trasporto dell’enorme fantoccio del Don Conte lungo le strade del paese,
disordinatamente e senza un percorso stabilito, a bordo di un carretto trainato
da un asino, per tutta la giornata del Mercoledì delle Ceneri. Il volto di
sughero o cartapesta dalle rimarcate fattezze umane, addosso una blusa colorata
per coprire un’anima di stracci e ferro, il fantoccio del Don Conte appare
assai ridicolo a causa del suo enorme e smisurato ventre, delle gambe
inversamente corte e dei genitali ben evidenti. L’epilogo della sua sorte è
noto, e sebbene in teoria egli debba subire un processo, spesso viene
condannato senza che la sentenza sia stata emanata. La sua fine è il rogo, a cui
arriva dopo aver subito il pestaggio, le ingiurie e gli sbeffeggiamenti di chi
lo accompagna, ed infine il lancio nel dirupo, o da un ponte, alla periferia
del paese, accompagnato dai fischi e dalle grida quasi disumane di tutta la
comunità festante.
GAVOI


Il carnevale di Gavoi è quindi un carnevale “suonato”, di suoni, musica e gioiosità. E’ un carnevale itinerante, che dal momento de “sa sortilla ‘e Tumbarinos”, ovvero il raduno dei Tamburini, richiama in strada i suoi abitanti per riunirli nella festa.

I suonatori non si distinguono per la mascherata, portando indosso semplicemente le classiche vesti in velluto, complete di bonette sul capo. Talvolta il loro volto può essere oscurato di fuliggine.
Altra particolarità del carnevale
gavoese è la partecipazione delle donne. Escluse dall’essere protagoniste degli
altri riti carnascialeschi, persino quando le figure rappresentate sono
prettamente femminili, in questo carnevale invece esse possono esibirsi al pari
degli uomini.
Pur distinguendosi per il suo
carattere musicale, tuttavia anche Gavoi rimane fedele alla regola della morte
del fantoccio sul rogo. In questo caso esso prende il nome di Zizzarrone, o Tiu Zarrone, ed il suo destino è identico a quello degli altri
fantocci: viene trasportato a braccia o su un carro trainato da un asino e
muore sul rogo. Il suo legame coi sonadores è dovuto al fatto che un tempo
forse essi accompagnassero il suo cammino fino alla morte.
AUSTIS



“S’Urtzu” è invece la vittima di questo carnevale, stavolta interpretato da un essere umano in carne ed ossa. Abbigliato con un gilet di pelle di cinghiale completa della testa e il viso tinto di nero, è tenuto a “sa soca” dai Bardianos, dai quali viene pungolato con dei bastoni quando d’improvviso decide di gettarsi a terra.
“Sos Bardianos” sono i guardiani de s’Urtzu e lo tengono legato con
la “soca”. Indossano su “gabbanu” nero chiuso al collo come i Thurpos e i “gambales”,
portano il cappuccio tirato sul capo e il viso e le mani tinti di nero. Suonano
il corno.
(
1) Vedere http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/08/maschere-di-sardegna-ottana-mamoiada.html
2) Cappotto corto al ginocchio.
3) Scarponi.
1) Vedere http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/08/maschere-di-sardegna-ottana-mamoiada.html
2) Cappotto corto al ginocchio.
3) Scarponi.
4) Una
lunga fune un tempo fatta di cuoio ora sostituita in taluni casi con una
normale corda.
5) Vedere ad es: Nuraghe Sa Domu ‘e s’Orcu di
Domusnovas (http://www.youtube.com/watch?v=kcBUETe40YM);
Tomba dei Giganti Sa Domu ‘e s’ Orku di Siddi (http://www.youtube.com/watch?v=fzA8gVyzm2A);
Nuraghe Sa Domu ‘e s’Orku di Sarroch.
(6) Per un approfondimento vedere anche http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/07/normal-0-14-false-false-false-it-x-none.html
(7) Zinziveddu
(8) Sonu ‘e matracca
Benènnidas sas chilcas de sos usos
RispondiEliminachi sos nostros antigos nos tramandan;
ca ischidare ritos chi s'abbandan
est meritu de zelu e de onore
e signos evidentes de amore
e de tribagliu pro chi sian difusos.
grascias medas a tie.
Antoni