lunedì 10 dicembre 2012

L'ancestrale rito delle maschere sarde


di Federica Selis


Che il Carnevale abbia inizio!


 Il rintocco delle campane della chiesa annuncia l’uscita della processione. È il 16 gennaio, la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate, ma la messa verrà celebrata questa sera. S’Ogulone (l’enorme falò) arde già da alcune ore su un lato della piazza, mentre il centro è lasciato libero, perché quando arriverà la notte la gente ballerà.  Il lamentoso corteo discende lungo il breve tragitto seguendo il Cristo in croce, in un lento e monotono salmodiare. Il sacerdote compirà i tre giri attorno al fuoco e benedirà le fiamme, mentre la statua di Sant’Antonio procede alta sopra tutti, il volto ligneo illuminato dalle fiamme in contrapposizione con le grandi maschere, che da quelle stesse fiamme stanno per essere divorate. Intanto il lungo corteo di donne in abiti scuri lo segue senza mai smettere di pregare e gli astanti si fanno il segno della croce. La sera è calata, e la processione non è ancora rientrata in chiesa che già si ode in lontananza il rumore dei campanacci. La processione dei fedeli si disperde nelle strade in attesa del rito propiziatorio vero e proprio, quello dei padri e dei nonni, quello che la gente di questo piccolo centro della Barbagia ancora porta con sè. E lì, ancora lontani, loro, i Merdùles, sono in procinto di partire: il Boe scalpita mentre il Merdùle tenta di tenere a freno la sua trepidante irruenza. La tensione dell’attesa è palpabile nei volti degli spettatori che attendono di godere del loro spettacolo. E finalmente eccoli muoversi e iniziare la sfilata, scendere, calare, a passo cadenzato e leggero, fino alla piazza principale, fino al fuoco dedicato al Santo che salvò la terra dal congelamento. Arrivano finalmente i Merdùles e compiono i tre giri in senso antiorario attorno al grande falò, gli stessi tre giri che poco prima avevano percorso la Santa Croce e Sant’Antonio con in mano il bastone di ferula che gli fu utile per riportare il fuoco sulla terra. Il rumore dei pesanti campanacci dei Boes, il passo greve e affaticato dei tristi Merdùles, l’ironico terrore causato dalla presenza della Filonzana, la magia dell’atmosfera creata da questi suoni unita alla gioia della festa ora sostituiscono il calmo e monotono incedere della processione: è questo quello che tutti attendevano ed eccolo finalmente iniziare. È la sera del 16 gennaio, è la vigilia della festa di Sant’Antonio Abate ed ecco, finalmente: il carnevale è iniziato!

Un affascinante viaggio nel favoloso mondo arcaico: il rituale

Il carnevale sardo è un rituale ancestrale che si ripercorre come un brivido che scuote da palmo a palmo le zone più interne, recondite e profonde di questo cuore di Sardegna. La Barbagia, ancora tanto sconosciuta e segreta da essere riuscita a conservare e tramandare i suoi gesti e i suoi rituali, trasforma le sue leggende in emozionanti situazioni reali. Da quando ad Ottana la prima uscita dei Merdùles dà inizio al carnevale, in tutta questa parte così misteriosa ed arcana della Sardegna è possibile osservare gli antichi riti farsi di nuovo realtà. A Mamoiada l’inizio del carnevale è celebrato dall’uscita dei Mamuthones. Dal 1984, anno in cui la Pro Loco riuscì a ridare vigore a questa tradizione, ogni rione dà mostra di sé in quella che potrebbe sembrare una competizione per il falò più bello. Tutti gli abitanti di Mamoiada, nessuno escluso, si preparano a dare vita al rito che più di tutti ha reso celebre questo angolo di Barbagia. I Mamuthones saltano, danzano attorno ai grandi fuochi, che possono anche raggiungere il numero di 40, accompagnati dal suono cadenzato e costante dei campanacci che portano sulla schiena. Sono le loro maschere mute, scure, a dare quel sapore di arcaico e misterioso a questa festa, perché di festa si tratta, sebbene sia la trepidanza delle fiamme a scandirne il ritmo anzichè il chiasso di una musica assordante. Solo la benedizione del prete, la sera prima, durante quello che viene chiamato “Su Pesperu”, anticipa questo rito arcano, mentre l’uomo di chiesa benedice le fiamme, prelevando da esse le prime braci e facendo i tre giri di rito. Ma il 17 gennaio il fuoco è onorato solo dal passaggio di queste maschere ancestrali, che si riprendono così il loro ruolo, scacciando con il loro assordante frastuono gli spiriti malevoli, e rinnovando ancora una volta l’antico rito della fertilità, ora mascherato sotto il nome di carnevale.

Carnevale come simbolo di sacrificio

Riproposizione di riti propiziatori e millenari, il carnevale in Sardegna non ha nulla a che vedere con la sarcastica ed allegra esuberanza dei carnevali forse più noti (Viareggio, Cento, Rio de Janeiro). Il carnevale sardo si libera della semplice accezione di festa allegorica che caratterizza questi carnasciali e ritrova i suoi gesti e suoi rituali in antiche e recondite tradizioni ancestrali. Chi da sempre porta avanti questa tradizione conosce bene il significato della riproposizione del rito, che niente ha a che fare con la stravaganza dei costumi del resto della penisola. La sola riproposizione del nome stesso in lingua sarda, “Carrasegare” o “Carrasecare” o “Carrasegai”, riconduce ad un significato molto differente dalla parola italiana “Carnevale”. “Carra – segare”, da alcuni interpretato come “carne da tagliare”, ricorda il sacrificio che nel carnevale sardo è spesso richiesto e che come tale deve avere una vittima, o un “capro espiatorio”, che dovrà sottostare alla fine scontata del rituale.

Un pericolo per la Chiesa

L’arrivo del capodanno sardo coincideva, almeno fino al secolo scorso, con l’inizio dell’annata agraria. Si celebrava in settembre, mese in cui il grande proprietario terriero, Su Donnu, chiudeva i contratti con i suoi subalterni. Era questo il momento in cui tutti i riti propiziatori legati alla fertilità dei campi dovevano avere luogo, ed era proprio in quest’occasione che si aveva a Mamoiada la prima uscita dei Mamuthones. Più tardi, l’evento dell’uscita della maschera era stato rimandato al 26 Dicembre, giorno di Santo Stefano, fino a recedere al momento in cui “sa prima essia” (la prima sortita) ha iniziato a coincidere con la data odierna del 17 Gennaio. Ma perché è accaduto questo? Come  si è detto l’uscita dei Mamuthones ha sempre coinciso con la celebrazione dei riti propiziatori per l’annata agraria. Alcuni anziani mamoiadini narrano che veniva richiamata l’uscita delle maschere in qualunque momento dell’anno se ne ritenesse utile l’azione. Era il frastuono dei loro campanacci che avrebbe scosso i cieli e fatto arrivare la pioggia, e insieme avrebbe allontanato gli spiriti maligni: simbolo di fertilità ma anche di buon auspicio e fortuna, quindi. Non si ha invece notizia sull’uscita anticipata dei Merdùles, se non per il ricordo di alcuni anziani relativo alla ricorrenza della luna nuova d’inverno (il 21 Dicembre circa). Tuttavia, non è difficile credere che anche ad Ottana le maschere pellite, soprattutto se Boes, venissero richiamate in casi di necessità della comunità. Non si faceva ricorso alla chiesa, quindi, e la gente credeva ancora nei riti propiziatori pagani. Ma erano davvero pagani questi riti? Fino alla venuta del cristianesimo in realtà essi erano la rappresentazione della vera religione, quella esistita da sempre in Sardegna, divenuta pagana solo dopo l’avvento della cristianità. Ma nonostante la forte repressione della Chiesa, la caccia alle streghe operata durante l’inquisizione e il pesante proselitismo compiuto nell’isola, il clero ha sempre dovuto combattere per predominare sulle credenze popolari. Di fatto la repressione operata dai gesuiti non ha mai avuto gran esito in Sardegna e molto spesso il Vaticano si è trovato costretto a minacciare di scomunica i prelati operanti sull’isola, accusati di troppa debolezza per frapporsi al volere della gente. In vari concilii vaticani, fino addirittura alla fine della seconda metà del secolo scorso, la Chiesa centrale ancora spronava il clero sardo a non sottomettersi ai rituali di magia operati dalla popolazione, poiché essa ancora si ostinava a praticarli. Tuttavia, nonostante le diverse e sempre più pressanti ammonizioni da parte del Pontefice e la forte ingerenza dei gesuiti nell’isola, la credenza popolare era talmente radicata e potente, forte della sua millenaria storia, da non aver mai permesso alla religione cristiana di vincere, tanto da costringerla ad integrarsi con questa e farne propri alcuni riti pur di ingraziarsi la fede della popolazione. Nel 1700 il padre gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo, in compagnia del fedele accompagnatore, il neonelese Bonaventura Licheri – la cui identità non è del tutto comprovata –, percorse tutta la Sardegna con l’intenzione di portare la cristianità nell’isola ancora profondamente pagana. Dal 1769 al 1775 decise di dedicarsi in modo particolare alle zone dell’interno, da Ortueri ad Ottana, passando per Samugheo, Mamoiada, Austis ed altre località del Sassarese, in cui si diceva si praticassero ancora culti pagani “in numen santu”, ossia nel nome del Signore. In queste località si dice egli giungesse in periodo carnevalesco, sorprendendo gli abitanti nella professione del rituale in maschera. Le sue prediche, rimaste nella memoria popolare per via della loro violenza, prevedevano la minaccia di gravi pene fino alla scomunica definitiva. In un tempo in cui le masse popolari non erano immuni dalla superstizione la parola di padre Vassallo pareva avere grande potere. Si ipotizza che con molta probabilità non fu tanto ciò che disse quanto i suoi metodi coercitivi ad imporre obbedienza nella gente, convincendola alla rinuncia di riti considerati demoniaci. Fu così che, secondo ciò che si riporta, molti travestimenti mascherati dell’isola furono abbandonati. Non si spiega però perché in alcuni paesi, quali Ottana e Mamoiada, la tradizione del rituale carnevalesco con Merdùles e Mamuthones si sia preservata nel tempo, al contrario di quelli che invece abbandonarono del tutto quest’uso. A ragion veduta si può affermare che, sebbene l’abbandono definitivo non sia mai avvenuto in questi paesi, appaia una sorta di tacito compromesso, stilato tra Chiesa e popolo, il fatto che l’uscita delle maschere avvenga al giorno d’oggi in una data precisa, quella del 16 gennaio, come già detto. Compromesso che vede la cerimonia cristiana accompagnare e mischiarsi al rituale arcaico, compreso di tutti i suoi elementi – accensione del falò, presenza delle maschere pellite, soprattutto dei campanacci, giro delle maschere attorno al fuoco, ballo tondo -, ed il sacerdote cristiano benedire con acqua e braci un fuoco che, sebbene porti nome di santo, in realtà è un chiaro segno della vittoria del paganesimo, o meglio della vecchia religione, su quella nuova.

Maschere antiche o pura invenzione?

 
Come si è evinto finora, nel “Carrasegare” (il carnevale) isolano, il mascheramento non è fine a sé stesso, ma teso a riprodurre il simbolo perenne di qualcosa di radicato nella tradizione culturale dei  Sardi. Esso si ripropone specificatamente in poche località ma è patrimonio di tutta l’Isola, tanto che diverse regioni della Sardegna, quali le Barbagie o il confine oristanese con queste (come anche del Cagliaritano), hanno, da alcuni anni a questa parte, sentito il desiderio di ripristinare una propria maschera, in alcuni casi forse già esistente ma ormai dimenticata, ed un proprio rituale attinente a questa. L’autenticità del mascheramento è dato dalla tradizione di riproporre il rituale da sempre, fino da epoche in cui il ricordo non riesca ad arrivare, e prevede il fatto che questo non sia mai stato abbandonato. Tuttavia, sembra assai strano che, vista l’importanza rituale e propiziatoria che queste maschere avevano nel passato, esistessero solo in tre paesi della Sardegna (Ottana, Mamoiada, Orotelli). Fatto sta che in tantissime località gli anziani conservano ancora il ricordo di manifestazioni carnevalesche con maschere zoomorfe con cui usavano divertirsi in gioventù. Tuttavia ciò che al giorno d’oggi si vede spopolare lungo le strade di alcuni paesi non sempre trova completa attinenza con i ricordi degli anziani, aggiungendo di fatto elementi e atteggiamenti atti ad attirare l’attenzione di un pubblico – soprattutto se poco esperto – facilmente suggestionabile da atti selvaggi e maschere che sembrano far a gara tra loro per apparire sempre più mostruose. Perso quasi del tutto il significato vero del rituale proposto da questi mascheramenti, al giorno d’oggi si assiste ad un fertile rifiorire di maschere più o meno autentiche. Non rifacendosi a tradizioni ben precise e usuali da sempre, alcune di queste, ben lungi dalla bellezza e dall’esaltazione emotiva concessa dalle parenti più famose, rischiano di apparire a volte fuori contesto. Spesso, ma non sempre, infatti, la riproposizione di un travestimento dimenticato non tende alla preservazione del rituale antico, ma bensì all’impressione che le gesta sempre più straordinarie di queste maschere incutono nel visitatore. Il danno che ne consegue non è da poco, in quanto il rischio è quello di dare, ad uno spettatore poco esperto, l’idea piuttosto errata di culti mai realmente esistiti in Sardegna. Per alcune di loro, lontane dal semplice ricordo degli anziani, la ricreazione si basa essenzialmente sulle poesie di quel Bonaventura Licheri di cui si è parlato precedentemente, che durante i suoi sopralluoghi in compagnia del padre Vassallo aveva l’abitudine di descrivere nel dettaglio sia il rituale che i travestimenti utilizzati. Tuttavia la reale autenticità sia di questi scritti che del loro autore è ancora da definire e lo studio sulle maschere antiche è ancora lontano dall’essere concluso.

domenica 14 ottobre 2012

"IS ANIMEDDAS" 31 Ottobre

di Attilio Piras
Consultando feste, sagre a Decimoputzu, spesso viene segnalata per il 31 Ottobre, Festa de Is Animeddas". E' una festa caduta in disuso da molti anni, chiedendo a qualche anziano,solo una zia sapeva di questa festa in paese e i suoi ricordi erano in sintonia con questa, per così dire, ricerca. Naturalmente la ricerca è aperta e tra i commenti del blog c'è spazio per tutti.
"IS ANIMEDDAS" è una tradizione singolare che si festeggia in più parti della Sardegna e Decimoputzu con
Seui e Orani vengono segnalati più volte. La festa vuole essere una sorta di omaggio ai defunti, anche se lo spirito originario della consuetudine mirava a far si che i poveri recuperassero qualche provvista per l'inverno. Si trattava, infatti, di una raccolta che veniva effettuata da gruppi di bambini, i quali giravano per le abitazioni chiedendo 1/ Is Pannixeddas", "Is Animeddas" o "Is Paschisceddas", e cioè un obolo di pane o frutta o dolci che, peraltro, nessuno rifiutava, (si rischiava di venire indicati come "susuncus", "pistincas" avari ). La consuetudine è ancora viva a Sinnai e riproposta a Seui. Una tradizione molto simile sopravive a Tempio Pausania, dove i bambini vanno di casa in casa per ricevere castagne o frutta secca, oggi persino denaro. A Santa Giusta, durante la notte del 1 novembre, un giovane, con una veste che rappresenta una figura allegorica chiamata" Maria punt'e oru", gira per le case raccogliendo doni che nessuno rifiuta. In Barbagia, Fonni, Gavoi, Orani, la stessa festa viene chiamata "Su Prugadoriu", "Su Mortu Mortu". A Lode' po Su Prugadoriu, sono i chierichetti a girare per le case col suono delle campane a mezzogiorno, guidati da due anziani del servizio religioso. Tutto ciò che viene raccolto è destinato ad una cena comunitaria. Qualche agricoltore, invece, macella una pecora o una capra, le cui carni, anticamente, venivano distribuite ai poveri, mentre oggi sono destinate a banchetti fra amici e parenti. La stessa tradizione è a Siniscola, è definita" Su Peti Coccone", la frase che i bambini pronunciano per chiedere l'obolo. In molti paesi del Logudoro, nella ricorrenza, si prepara una tavola imbandita di tutto punto, fata eccezione per le posate, è il cosiddetto "pasto dei defunti", che poi viene devoluto ai poveri. In qualche paese una questua di "grano per i poveri", viene effettuata dai sacrestani. A Bitti abbiamo un'altra tradizione: le donne siedono sul pavimento della chiesa tenendo in mano" sos tumulos", scodelle di incenso, rosmarino e un cero acceso. In altri centri dell'isola, soprattutto quelli dove si conservano ancora vive le usanze agricole, per tradizione si conservano i "dolci dei morti", in particolare" pan'e saba" e "pabassinas". Oggi si trovano in vendita in tutte le pasticcerie, ma in passato venivano preparate in case delle massaie e ricambiavano il dono con omaggio di melagrana e mele cotogne o di crisantemi coltivati nel proprio giardino. L'usanza della questua è attuale anche in Ogliastra, a Lanusei e Baunei. Molto diffusa e pure la consuetudine di offrire agli ospiti una pabassina e un bicchiere di vino nuovo. Un po' dappertutto, si usa tenere davanti alla fotografia dei cari defunti" Sa Lantia", un bicchiere pieno d'olio in cui si fa galleggiare una "mariposa"(un triangolo di latta con pezzettini di sughero nelle punte e un foro al cento, attraverso il quale passa un lucignolo), che resta accesa per tutto il mese, naturalmente aggiungendo l'olio necessario per l'alimentazione. A Orani la tradizione de "Is Animeddas", riproposta nel 1990, ha particolari caratteristiche: è basata su zucche coltivate dagli stessi Oranesi, che vengono svuotate e intagliate in modo da raffigurare teschi. Questi intendono simboleggiare gli spiriti dei parenti defunti che, nella ricorrenza del2 Novembre, ritornano dai propri familiari per rinnovare il ricordo e far si che non soffrano per la loro dipartita. Provvisti di queste zucche, moltissimi ragazzi visitano le case del paese per chiedere offerte di dolci e frutta e questo in paese viene chiamato "Su Mortu Mortu". Ricordo un mio collega di San Vito o Muravera, durante il pranzo il 1o o il 2 novembre, nella mensa aziendale a Cagliari, passava in giro tra i tavoli a offrire un bicchiere del suo vino nuovo, ricordava i nomi dei colleghi defunti, lo faceva in un modo quasi religioso, a noi sembrava una cosa strana, per fortuna, anche senza conoscere le usanze del suo paese si creava qualche minuto di silenzio: "Scusa Gianfranco solo oggi capisco interamente le tua nobili intenzioni".

martedì 18 settembre 2012

Maschere di Sardegna:


Fonni, Bosa, Ovodda, Gavoi, Austis
di Federica Selis

FONNI

Se c’è una maschera che assomiglia a quella dei "Thurpos" di Orotelli (1) è quella dei "Buttudos" di Fonni. Stesso “gabbanu” (2) nero a doppiopetto col cappuccio sul capo, stesso viso imbrattato di fuliggine di sughero bruciato, stessi pantaloni di velluto nero, gambali e "cosinzos"(3), anche i fonnesi portano a tracolla una fila di piccoli campanacci appesi ad una sottile cinghia di cuoio. Ciò che li differenzia dai simili orotellesi è il ruolo che i Buttudos hanno all’interno del rituale carnevalesco. Essi sono infatti i guardiani de “S’Urthu”, la seconda maschera più importante del carnasciale fonnese, che tengono legato a sé attraverso lunghe catene di metallo. È proprio l’utilizzo di questa catena, invece della classica "soca" (4), che contraddistingue queste scure maschere dalle altre.

Come già detto, la seconda componente del carnevale fonnese è s’Urthu. Il vero significato di questo termine non è affatto chiaro. Diversi studiosi si sono occupati di questa questione, arrivando tutti alla stessa conclusione: la parola può trovare solo due significati plausibili: orso oppure orco. Non è certo che in Sardegna potessero essere presenti, in epoche arcaiche, gli orsi, fatto sta che è ben noto ormai che la fauna primordiale si sia di molto modificata negli ultimi millenni vedendo l’estinzione di specie che un tempo erano presenti e delle quali rimane tuttora presente, nella lingua e nella toponomastica, il nome. A sostenere questa prima tesi, inoltre, c’è il fatto che la maschera carnevalesca dell’orso si ritrovi in diversi altri carnevali, sia nell’Italia continentale che nell’Europa danubiana, dove molto profonde sono le somiglianze tra le maschere locali e quelle sarde. Anche il carattere della maschera fonnese parrebbe rapportarsi a quello selvaggio dell’animale di cui porterebbe il nome: irruento, imprevedibile, trasgressivo ed irriverente. Ma ciò è vero anche per l’orco, termine che si presta spessissimo in Sardegna a dar nome a strutture megalitiche, in particolare a nuraghi e tombe dei giganti, sotto la locuzione di “Sa Domu ‘e s’Orcu”, “la Casa dell’Orco”, appunto (5).  Che il suo nome significhi orco oppure orso, sta di fatto che quella dell’Urthu è in assoluto la maschera più folle, irresponsabile e coraggiosa tra tutte quelle sarde.


Il suo abbigliamento prevede una pelle bianca di montone o caprone che gli copre anche il capo, maglia nera, pantaloni di velluto nero, gambales e cosinzos. Taluni Urthos portano appeso al collo un grosso campanaccio. Il viso, le mani ed anche le pelli indossate sono imbrattati di fuliggine, tanto che il volto appare completamente oscurato e mostruoso quando sorride, tendendo a mostrare i denti, dandogli quasi un aspetto spaventoso e demoniaco. È legato in vita con una catena che serve per tenerlo a freno quando compie le sue malefiche incursioni. Caratteristiche de s’Urthu sono infatti l’aggressività e l’imprevedibilità. Impersonato spesso da uomini di stazza piuttosto imponente, è comunque una figura agile, capace di arrampicarsi su qualunque tipo di superficie, possano essere pali della luce, cornicioni, balconi o anche semplici cavi del telefono. Entra nelle case attraverso le finestre aperte, talvolta arrivando finanche ai piani più alti dei palazzi sfruttando ogni genere di appiglio, e si fa offrire da bere. Talvolta la sua ribellione lo porta a gettarsi per terra oppure a lottare con altri Urthus, o comunque ad infastidire e spaventare gli astanti comparendo loro alle spalle o afferrandoli a sorpresa per le caviglie. La maggior parte delle volte i suoi attacchi sono rivolti verso le giovani donne, che s’Urthu carica poi sulle spalle portandole via con sè. È una tra le maschere riscoperte da poco per volere dei fonnesi. 
 
Testimonianze del passato, risalenti alla fine dell’800, già parlano anche della figura del "Ceomo", ovvero il fantoccio di paglia e stracci, vittima e “capro espiatorio” del carnevale fonnese, colui che prenderà su di sé le colpe di tutti i suoi concittadini espiandole con la morte al rogo. Della sua triste sorte piangeranno “is Attittadoras”, o “mascaras limpias”, uomini vestiti con abiti femminili neri che intoneranno il canto di morte, “s’attittu”, per il fantoccio. Canti che poi, con l’incitamento del pubblico, perderanno presto il loro tragico salmodiare per diventare scurrili e spesso lascivi.

BOSA
All’inizio canti satirici, lascivi e irridenti, che si spargono per le vie della cittadina sin dalle prime ore del mattino, prendendosi gioco di quei concittadini che durante l’anno si son resi protagonisti di scandalo o di pettegolezzo, man mano che scende la sera e i costumi cambiano si modifica anche la tipologia del canto, che diventa vero e proprio lamento funebre per il re Giolzi che pian piano si avvicina alla morte. Ed eccolo il re Giolzi, pupazzo di canne e stracci, rigorosamente bianco anch’esso, simbolo del carnevale, capro espiatorio delle colpe della città ma anche dal forte simbolismo sessuale, per via dei genitali evidenti e messi in mostra. Al culmine della notte del martedì grasso la sua fine è prossima. I canti funebri lo accompagnano mentre le fiamme lo avvolgono e le maschere bianche girano attorno a lui segnando la marcia col potente suono dei tamburi.
Il tema della morte del fantoccio, del “capro espiatorio” e de “su teu”, il canto funebre, è presente quindi anche nel particolarissimo carnevale di Bosa. Qui sono il bianco e nero a farla da padroni, in un incontrarsi e sovrapporsi dei due colori che si uniscono e si mischiano tra di loro, mescolandosi. Nero è infatti il colore dell’abito di giorno, bianco è quello della notte. La giornata più importante del carnevale bosano è il martedì grasso. Un tempo i festeggiamenti carnascialeschi iniziavano il giorno di Capodanno e si protraevano fino alla Quaresima. Tutte le domeniche erano considerate festive, così come i giorni principali del carnevale. Come già detto, due sono i colori che lo caratterizzano: il nero di giorno e il bianco quando scende la sera. Le cosiddette “maschere” vestono abiti femminili neri da vedova. Il capo è coperto da un fazzoletto nero e il viso anche è tinto di nero. Portano appresso bambolotti smembrati, simbolo di Giolzi morente di fame, e imitano i lamenti de “is Attittadorasa” (le piangenti), che rappresentano. Avvicinano i bambolotti al seno delle spettatrici simulando l’allattamento, affinchè possano sfamare il bambolotto crudelmente abbandonato dalla madre che ha preferito i festeggiamenti di carnevale a lui, condannandolo a morir per fame.
La sera tutto cambia. Ilarità e inneggiamenti al sesso la fanno da padroni in questo carnevale ricco di simbolismo. La notte le maschere vestono abiti interamente bianchi, con lenzuola e federe, ma hanno sempre il viso tinto di nero e tra le braccia portano una lanterna di carta, con cui illuminano le parti intime di tutti i passanti (soprattutto se femminili) alla ricerca di Giolzi: si dà il caso infatti che il re Giolzi abbia la predisposizione particolare a nascondersi in mezzo alle gambe delle donne, nei genitali. Quando infine riescono a trovarlo ecco che il richiamo «Giolzi, Giolzi! Ciappadu, ciappadu!» echeggia alto tra la folla. È questo l’inizio del “martirio” del fantoccio, destinato a finire nel rogo. La prima volta che si viene a contatto con questo carnevale esso può apparire piuttosto crudo per la presenza del sangue e dello smembramento del bambolotto.
Ma la distinzione dei due colori non è la sola particolarità del carnevale di Bosa, considerato realmente autentico proprio per la sua originalità e profonda diversità dal resto dei carnevali sardi e non solo, sebbene la tradizione del canto funebre per il fantoccio del carnevale che finisce al rogo sia popolare in gran parte dell’Italia continentale: ciò tuttavia gli conferisce anche un carattere di modernità rispetto ai carnevali pelliti della Barbagia.

OVODDA
Si narra che un tempo ad Ovodda regnasse un potente tiranno. Per il suo carattere prepotente e dispotico era stato messo alla gogna e condannato a dover subire la terribile vendetta della popolazione, che non aveva esitato a vendicare le ingiustizie subite nella maniera più crudele e impietosa possibile: il rogo del despota ed il suo lancio giù dal burrone. Si dice che il culmine del carnevale ovoddese voglia riproporre di anno in anno questa situazione, in cui a conquistar la vittoria era stato il carattere impavido e coraggioso della comunità di Ovodda (6). Questo carnevale non fa parte di quei carnevali di recente riscoperta: esiste un video, realizzato nel 1989 a cura di Paolo Piquereddu, in cui si descrive la fase finale, ovvero la condanna al rogo del fantoccio. È questo il protagonista principale di questo carnasciale, che ha come caratteristica quella di essere celebrato il giorno del Mercoledì delle Ceneri (Mehuris de Lessia), giornata in cui tutto il resto della Sardegna e del mondo cattolico in genere si prepara ad entrare nei rigori della Quaresima. Ad Ovodda ciò non accade, essendo proprio il mercoledì il giorno in cui il carnevale trova il suo epilogo più tragico. Scomposto e disordinato, ma soprattutto privo di qualunque regola, il carnasciale ovoddese non prevede una vera e propria maschera: per le strade del paese gli abitanti si spargono indossando gli abiti più stravaganti, stracci, vestiti vecchi e quant’altro faccia all’occorrenza, anche se non è strano talvolta far l’incontro di qualcuno con indosso una pelle di capra appena scuoiata e compresa di testa, o anche maschere vestite di pelli di pecora con annessi chiassosissimi campanacci. Appresso, legati a funi, o sopra carretti, le maschere possono portare di tutto: da animali vivi chiusi in gabbie, a vecchi oggetti d’ornamento, ombrelli, ombrelloni da spiaggia, vecchi elettrodomestici e quant’altro. Non mancano nemmeno gli atti di vandalismo e così ecco sfilare per le strade maschere con appresso cartelli stradali appena sradicati. Tutto è permesso durante questo giorno, tutto è lecito, è l’anarchia più totale. L’unica cosa che non deve assolutamente mancare, e che accomuna tutti i mascherati, è il viso interamente tinto di nera fuliggine, caratteristica che dà il nome alle maschere, denominate “is Intintos”, i tinti. Tra essi sono presenti alcuni “Intinghidores”, i tinteggiatori, il cui scopo è quello di spalmare di fuliggine di sughero (7) tutti coloro che incontrano per la strada. Come già detto sono la totale anarchia e il caos della festa a far da padroni in questo carnevale, che vede il trasporto dell’enorme fantoccio del Don Conte lungo le strade del paese, disordinatamente e senza un percorso stabilito, a bordo di un carretto trainato da un asino, per tutta la giornata del Mercoledì delle Ceneri. Il volto di sughero o cartapesta dalle rimarcate fattezze umane, addosso una blusa colorata per coprire un’anima di stracci e ferro, il fantoccio del Don Conte appare assai ridicolo a causa del suo enorme e smisurato ventre, delle gambe inversamente corte e dei genitali ben evidenti. L’epilogo della sua sorte è noto, e sebbene in teoria egli debba subire un processo, spesso viene condannato senza che la sentenza sia stata emanata. La sua fine è il rogo, a cui arriva dopo aver subito il pestaggio, le ingiurie e gli sbeffeggiamenti di chi lo accompagna, ed infine il lancio nel dirupo, o da un ponte, alla periferia del paese, accompagnato dai fischi e dalle grida quasi disumane di tutta la comunità festante.

GAVOI

Come per Bosa il martedì grasso e per Ovodda il Mercoledì delle Ceneri, anche per Gavoi c’è una giornata precisa che definisce l’apice del carnevale: il Giovedì grasso, chiamato Giobia Lardajola, per via del fatto che sia d’uso cucinare le fave col lardo. Protagonisti ne sono “sos Sonadores” e “sos Tumbarinos”, ovvero i suonatori di tamburo. Diversissimo da tutti gli altri carnevali barbaricini, ma nel contempo fedele alla regola della morte del fantoccio, il carnevale di Gavoi si distingue dagli altri per la festosità e la musica. Caratteristica di questo carnasciale, infatti, non è la maschera, semplice, in sughero, che raramente viene indossata, ma bensì gli strumenti musicali. Risalenti ad epoca antichissima, rarissimi da trovare, solo a Gavoi infatti vengono ancora utilizzati: la loro particolarità è che sono realizzati interamente a mano, recuperati da utensili e strumenti della casa tipica come setacci per la farina, cilindri di sughero o forme per il formaggio. Essi sono: su triangulu; su tamburu, realizzato a mano con pelli di capra o di cane, ora sostituite da pelli sintetiche; su tumborro, strumento tanto antico quanto particolarissimo, formato da una lunga canna, terminante con una vescica di maiale che gli fa da cassa di risonanza e con un lungo crine di cavallo a collegare le due parti; e ancora su pipiolu, un piccolo flauto di canna con quattro fori, che un tempo veniva utilizzato anche durante il carnevale di Ottana dagli innamorati che, accompagnandolo con esibizioni di poesia estemporanea, corteggiavano col suo suono le donne amate.
Il carnevale di Gavoi è quindi un carnevale “suonato”, di suoni, musica e gioiosità. E’ un carnevale itinerante, che dal momento de “sa sortilla ‘e Tumbarinos”, ovvero il raduno dei Tamburini, richiama in strada i suoi abitanti per riunirli nella festa.
 I suonatori non si distinguono per la mascherata, portando indosso semplicemente le classiche vesti in velluto, complete di bonette sul capo. Talvolta il loro volto può essere oscurato di fuliggine.
Altra particolarità del carnevale gavoese è la partecipazione delle donne. Escluse dall’essere protagoniste degli altri riti carnascialeschi, persino quando le figure rappresentate sono prettamente femminili, in questo carnevale invece esse possono esibirsi al pari degli uomini.

Pur distinguendosi per il suo carattere musicale, tuttavia anche Gavoi rimane fedele alla regola della morte del fantoccio sul rogo. In questo caso esso prende il nome di Zizzarrone, o Tiu Zarrone, ed il suo destino è identico a quello degli altri fantocci: viene trasportato a braccia o su un carro trainato da un asino e muore sul rogo. Il suo legame coi sonadores è dovuto al fatto che un tempo forse essi accompagnassero il suo cammino fino alla morte.

AUSTIS
Con “sos Colonganus” di Austis desideriamo aprire ora una finestra sulle maschere più particolari e di recente riscoperta della Sardegna. L’unica testimonianza dell’esistenza di questo travestimento in un passato vecchio almeno di alcuni secoli ci è data dalle poesie di Bonaventura Licheri, riportate in auge dallo studio del poeta neonelese Eliano Cau e della studiosa ulianese Dolores Turchi solo nel vicino 2007, anno della prima uscita ufficiale della maschera. In realtà non c’è nessuna certezza sull’autenticità sia degli scritti del Licheri sia della sua reale identità con colui che accompagnò il gesuita Padre Vassallo durante le sue disgraziate perenigrazioni, atte ad eliminare il paganesimo in Sardegna. Tantissimi sono i dubbi che accompagnano entrambe le cose e quindi la reale esistenza in tempi molto remoti di questa maschera, o almeno del rituale da essa riproposto, è del tutto ancora da verificare. Fatto sta che la maschera austese risulta molto diversa dalle altre maschere esistenti già in precedenza, in quanto carica di elementi propri, e quindi la sua antichità, soprattutto in veste dell’abbigliamento e degli ornamenti utilizzati, la pone tra quelle maschere che, sebbene di recente riscoperta, gode di più probabilità di risultare realmente autentica.
Le figure che compongono il carnevale di Austis sono principalmente tre: sos Colonganos, sos Bardianos e s’Urtzu.  I primi indossano una lunga pelle nera di pecora, sulla schiena portano ossi di animali anziché campanacci, sul viso hanno la maschera in sughero dipinta di nero dalle fattezze simili a quella dei Mamuthones, che coprono con rametti e foglie di corbezzolo. Il capo è coperto da un fazzoletto nero, su cui viene poi posata una pelle di volpe completa della testa. Le braccia e le mani sono imbrattate di fuliggine nera e camminano muniti di bastone. Ballano ordinati attorno al fuoco di Sant’Antonio o a quello di San Sebastiano e durante le sfilate procedono su due file ordinate. Di tanto in tanto battono a terra il bastone e fanno un salto per far risuonare gli ossi. In paese si dice che producano un suono simile a quello delle “matraccas” della Settimana Santa (8).
 





S’Urtzu” è invece la vittima di questo carnevale, stavolta interpretato da un essere umano in carne ed ossa. Abbigliato con un gilet di pelle di cinghiale completa della testa e il viso tinto di nero, è tenuto a “sa soca” dai Bardianos, dai quali viene pungolato con dei bastoni quando d’improvviso decide di gettarsi a terra.
Sos Bardianos” sono i guardiani de s’Urtzu e lo tengono legato con la “soca”. Indossano su “gabbanu” nero chiuso al collo come i Thurpos e i “gambales”, portano il cappuccio tirato sul capo e il viso e le mani tinti di nero. Suonano il corno.



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1)  Vedere  http://ilpopoloshardana.blogspot.it/2012/08/maschere-di-sardegna-ottana-mamoiada.html
2)     Cappotto corto al ginocchio.
3)     Scarponi.
 4)    Una lunga fune un tempo fatta di cuoio ora sostituita in taluni casi con una normale corda.
 5)    Vedere ad es: Nuraghe Sa Domu ‘e s’Orcu di Domusnovas (http://www.youtube.com/watch?v=kcBUETe40YM); Tomba dei Giganti Sa Domu ‘e s’ Orku di Siddi (http://www.youtube.com/watch?v=fzA8gVyzm2A); Nuraghe Sa Domu ‘e s’Orku di Sarroch.
(7)    Zinziveddu
(8)    Sonu ‘e matracca