venerdì 23 maggio 2014

Nonna Ester

- Racconto  -

di Federica Selis

Quella mattina non avevo sonno. Ero uscita presto, quando il sole appena tinteggiava di un pallido rosa sfocato le montagne ad oriente. Mia nonna mi diceva sempre che se avessi trovato il nascondiglio dell’arcobaleno sulla terra avrei sicuramente scoperto un tesoro. Guardai il cielo. Una luna piena biancastra si tratteneva ancora alta sull’orizzonte scuro, nuvole rapide solcavano il cielo provenendo da nord. Promettevano freddo, forse anche quel giorno avrebbe piovuto e magari proprio quella mattina avrei scovato il tesoro dell’arcobaleno. Ero ancora troppo giovane per capire i segnali ma presto sapevo che le cose sarebbero cambiate. Qualcuno mi chiamava predestinata ma io sapevo che non era così. Alla mia età non sapevo nemmeno cosa fosse il destino ma solo che le cose accadevano. Era magia, proprio come il sole che sorgeva e che da solo riusciva a dipingere tutto quello che vedevo attorno a me, quando io non riuscivo ad afferrare un solo albero con la mia piccola mano. Mia nonna diceva che presto avrei saputo fare molto di più, ma io non ci credevo perché ogni volta che cercavo di chiederle qualcosa mi rispondeva: “arriverà anche il tuo tempo.” Io non capivo quale sarebbe stato il mio tempo né quando sarebbe arrivato, ma nonna Ester si limitava a voltarmi le spalle mentre impastava la farina. Quella mattina ero rientrata dentro la cucina dalle pareti bianche di calce fresca perché fuori faceva troppo freddo per restare. Mia nonna era già sveglia da parecchio e due fuochi ardevano nel forno a legna addossato alla parete e in una grande “cuppa” sotto il tavolo rozzo al centro della stanza. La sensazione di calore era molto forte in quell’ambiente così piccolo, ed era sempre piacevole, soprattutto la mattina. In piedi, posai i gomiti sul tavolo e affondai il mento tra le mani, scrutando quel viso di donna non ancora rugoso eppure già incorniciato dal fazzoletto nero da lutto, i cui lembi in quel momento nonna Ester portava annodati sopra la testa. Neppure uno dei suoi capelli grigi sfuggiva a quello strano gioco di nodi: quei capelli quasi del tutto bianchi, ormai lunghissimi, che non avevo mai visto incorniciarle il volto. Nonna Ester, da che io ero nata e forse da molto tempo prima, li teneva strettamente intrecciati e rigirati a formare una crocchia sopra il capo: per questo motivo il suo fazzoletto assumeva una forma a punta e la sua testa appariva leggermente allungata. Solo le sue mani tradivano una vita di stenti, una vita di lavoro duro, soprattutto da quando nonno Raffaele era morto, lasciandola vedova con dodici figli. Nonna Ester aveva solo quarantaquattro anni allora eppure solo le sue mani, dalle dita lunghe e affusolate sebbene non troppo sottili, mostravano le sofferenze patite. La conoscevo bene, ai miei occhi di bambina non c’era al mondo donna più saggia. Nel mentre che la osservavo smise di impastare e si strofinò le mani imbiancate di farina nel canovaccio che portava allacciato in vita, alla stringa del grembiule. Si fermò solo un attimo a guardarmi e notando il mio sguardo assorto mi redarguì colpendomi bonariamente con un angolo dello strofinaccio. “Embè non hai niente da fare?” mi domandò in tono burbero “già che sei lì, và a tirarmi su un secchio dalla fontana.” Non volevo farmi ripetere le cose quando era lei a chiedermele e sebbene avessi compreso che il tono del suo rimprovero era bonario, mi affrettai ad obbedire. Nonna non sopportava di vedermi in ozio e io non volevo vederla contrariata.

Un sottile strato di ghiaccio si era formato durante la notte sulla superficie dell’acqua e dovetti far calare con più velocità il secchio per riuscire a romperlo. Nonostante le mie deboli braccia di bimba, ero abituata a quel lavoro e non mi pesava svolgerlo. Mi era stato insegnato a portare il secchio in equilibrio sulla testa, proprio come facevo con il bucato quando accompagnavo nonna a lavare i panni al lavatoio. Tolsi quindi dalla tasca del logoro grembiule grigio il cerchio di stoffa che usavo per tenere ben fermo il secchio e lo sistemai con cura sul capo, quindi rientrai in casa, premurandomi di non rovesciare nemmeno una goccia d’acqua. Una volta dentro la cucina, ne versai una buona dose su un pentolino che nonna aveva posizionato su un treppiede sul fuoco, affinchè si riscaldasse perchè sarebbe servito a preparare il the per la colazione. Nessuna di noi parlava mentre svolgevamo i nostri compiti.

Quella della pulizia mattutina era un’abitudine a cui mia nonna non voleva che mancassi e davanti al camino c’era sempre la tinozza di ferro dentro cui mi infilavo per fare il bagno. Un tempo era stata ricoperta di smalto blu, ma ora appariva scrostata in più punti e di tanto in tanto spuntava fuori un pezzetto di ruggine. Eppure io la trovavo comoda, anche se adesso che le gambe si erano allungate dovevo piegarmi in tre parti per starci tutta. Nonna Ester stava dando la forma ai piccoli pani che avrebbe infornato di lì a poco. Aveva mischiato all’impasto dei pezzi di carne di maiale e adesso sistemava le pagnotte sulla lunga pala da forno. Ne aveva fatto almeno una ventina di chili perché domenica si sarebbe sposata Vincenza, la figlia della vicina, e nonna gliene avrebbe regalate un po’. Non era il pane degli sposi, questo nonna Ester lo sapeva bene, ma d’altronde a quello ci avrebbero pensato le parenti della sposa, e poi Tzia Maria le aveva chiesto apposta il favore di preparare quel tipo di pagnotte per la figlia.

Nonna si impegnava molto per i vicini. Capitava spesso che qualcuno venisse a cercarla anche alle ore più strane, e non importava che fosse giorno o notte, venivano lo stesso. A volte arrivava gente anche dagli altri paesi, a piedi o anche a dorso d’asino. Nonna però si muoveva sempre da sola. Usciva quando era più buio, anche se d’inverno bastava che fosse anche sera tardi: prima però badava che io fossi profondamente addormentata. Sapevo che mi voleva bene e sapevo anche che doveva farlo, ma non capivo il perché capitasse tanto spesso che dovesse lasciarmi sola in casa la notte. A volte facevo solo finta di dormire e restavo sveglia ad ascoltare il rumore della porta che si chiudeva e quando capivo che era uscita, mi alzavo dal letto e correvo verso la finestra per osservare dove andasse. Ma non riuscivo a vedere niente, perché la strada non era illuminata, e dopo poco mia nonna, sempre di nero vestita e collo scialle tirato sul capo, veniva inghiottita dalle tenebre. La nostra casa non era grande, appena due stanzette, una cucina ed un cortiletto, dove nonna teneva una decina di galline e due oche. Il bagno era in un angolo del cortile, ma c’erano solo un lavandino in cemento per lavare i panni ed un piccolo servizio, e nient’altro. Vivevo con lei ormai da troppi anni per ricordarmi di aver vissuto con altri prima, anche se avevo ben chiari i visi di coloro che mi avevano messa al mondo. Tanto chiari da sapere che nonna Ester in realtà non era la mia vera nonna, ma una sorella della mamma di mio babbo, e che i miei genitori erano quelli che io chiamavo semplicemente Tzia Gesuina e Tziu Migheli. Venivano spesso a trovarmi, lei con una lunga gonna grigia, una giacchetta di lana nera e il fazzoletto a fiori scuri sul capo. Aveva sempre ai piedi un paio di scarponi da lavoro di almeno un numero più grande e teneva le mani intrecciate sul davanti del grembiule. Tziu Migheli invece indossava sempre un completo di velluto marrone, consunto e lacero ai gomiti e man mano che il tempo passava i suoi pantaloni erano sempre più corti, quasi che ogni tanto ne tagliasse un pezzo. Spesso era scalzo, ma altre volte era arrivato con un paio di stivali di pelle aperti però in punta. Entrambi mostravano una certa soggezione verso nonna Ester, che li portava a scambiare con lei appena un paio di cordialità prima di salutarmi e andarsene con la bertula (sacca) piena di buone vivande. Erano lavoratori della campagna, e non possedevano neppure un asino da quanto erano poveri. Nonna Ester non parlava mai di loro, se non la volta in cui, snervata dalle mie richieste, aveva cercato di spiegarmi che non potevano tenermi con sé in quanto abitavano in una casetta troppo misera per poterci ospitare tutti. Io non avevo posto altre domande e mi ero rimessa mesta mesta a far di conto sul quadernetto. Non mi interessava approfondire la questione, perché con la donna che mi stava allevando ci stavo più che bene. Poi una notte tutto cambiò. Ricordo che pioveva molto, di tanto in tanto qualche lampo squarciava il buio e il vento ululava furiosamente, facendo sbattere sui vetri delle finestre i rami dell’albero d’ulivo del cortile. Non c’era luna quella notte e qualcosa mi inquietava. Era solo una sensazione però era come se qualcosa dentro mi angosciasse. Nonna Ester si preparava per uscire, ordinandomi di andare a letto, ma non riuscivo ad ubbidirle: avevo paura. Mi ricordò che l’indomani mi sarei dovuta alzare presto per dar da mangiare alle galline e l’idea del sonno mattutino mi convinse a cedere. Eppure quella sensazione non scompariva. Quella notte finsi di dormire, ma sotto le coperte portavo ancora gli abiti da giorno. Quando nonna uscì aspettai qualche minuto prima di alzarmi dal letto e poi infilai svelta lo scialletto di lana e cercai di seguirla lungo la strada. Lei era davanti a me, appena un centinaio di passi, confusa nel buio della notte per via degli abiti neri. Portava come sempre lo scialle tirato sul capo e doveva avere le braccia incrociate sul petto perché non ne vedevo le mani. Camminava veloce, come se avesse fretta, ed io faticavo non poco a starle dietro. Se l’avessi persa di vista mi sarebbe venuto il panico, perché anche se conoscevo benissimo le strade per tornare a casa, sapevo che la notte girava per le vie il carro dei morti. Nonna passò davanti alla Chiesa di Nostra Signora della Neve e svoltò nell’angolo a sinistra, in un viottolo stretto dal pavimento di acciottolato. Conoscevo bene quel vicoletto, ci abitava Tzia Boicca, la signora che mi regalava sempre le pardule. Nelle ultime settimane aveva avuto il marito malato. Nessun medico era riuscito a curarlo e Tziu Bobore era stato sempre peggio, tanto che nel giro di pochi giorni non era riuscito nemmeno più ad alzarsi dal letto. Tzia Boicca non aveva voluto che lo vedessi, ma dalle chiacchiere delle vicine avevo capito che ormai non c’era più niente da fare. Nonna Ester si infilò dentro la piccola porta di casa di Tzia Boicca senza nemmeno bussare, perché l’uscio era già aperto. Dalle finestre socchiuse si intravedeva solo il chiarore di una candela, tutto il resto della casa non era illuminata. Cercai di scrutare attraverso uno spiraglio della persiana ma per via dell’oscurità e della pioggia non vidi nulla. Tesi l’orecchio ma dalla casa non giungeva alcun suono. Poi d’improvviso l’uscio si riaprì ed io mi appiattii spaventata contro il muro per non farmi scoprire. Nonna Ester stava uscendo, sola, senza salutare e senza dire una parola. Subito dietro di lei la porta si era richiusa senza rumore. Sebbene l’amassi, in quel momento nonna mi sembrò l’essere più spettrale che avessi mai visto. Portava il davanti dello scialle a coprire naso e bocca e solo gli occhi spuntavano fuori. Aveva le braccia incrociate sul petto, sotto lo scialle, quasi vi dovesse tenere nascosto qualcosa. Non mi notò e camminò svelta verso casa senza mai voltarsi. Per fortuna conoscevo una scorciatoia e riuscii a rientrare prima di lei, anche se quando fu a casa nonna non venne a controllare che io fossi a letto. Doveva essere notte inoltrata, forse le due, eppure accese il fuoco. Incuriosita sbirciai dal buco della serratura e vidi che vi gettava dentro un piccolo martelletto di legno. Si era tolta lo scialle e stuzzicava le fiamme affinchè bruciassero completamente quel piccolo arnese. Incapace di capire il senso di tutto quello a cui avevo assistito quella notte mi rimisi a letto e il giorno dopo mi costrinsi a trattenere la curiosità e a non chiedere nulla a nonna Ester. Qualcosa mi diceva che si sarebbe arrabbiata.

Dopo quella notte successe altre volte che uscisse, ma io non la seguii più. Quando il mio tempo arrivò trovai le risposte a tutte le domande. Ero stata paziente ed ero stata premiata, anche se mai avrei voluto imparare ciò che mi era stato insegnato.

Ma ora il momento di uscire è arrivato. Diversamente da nonna Ester io controllo sempre che Marianna dorma nel suo letto prima di indossare lo scialle. Non voglio che la bambina si spaventi. Io non mi sono mai sposata e non ho mai avuto figli perché forse questo era il mio destino. Una come me non avrebbe mai potuto dare la vita. Avrebbe solo potuto compiere atti pietosi. Ero una predestinata. Ma adesso è il momento di andare, è buio e anche se fuori non fa freddo devo comunque coprire il capo con lo scialle. Rigiro il lembo attorno alla bocca, prendo su matzoccu ed esco. Domani mattina la campana di Nostra Signora della Neve avvertirà la popolazione che questa notte qualcuno è morto.