Nonna Ester
- Racconto -
di Federica Selis
Quella mattina non avevo sonno. Ero
uscita presto, quando il sole appena tinteggiava di un pallido rosa
sfocato le montagne ad oriente. Mia nonna mi diceva sempre che se
avessi trovato il nascondiglio dell’arcobaleno sulla terra avrei
sicuramente scoperto un tesoro. Guardai il cielo. Una luna piena
biancastra si tratteneva ancora alta sull’orizzonte scuro, nuvole
rapide solcavano il cielo provenendo da nord. Promettevano freddo,
forse anche quel giorno avrebbe piovuto e magari proprio quella
mattina avrei scovato il tesoro dell’arcobaleno. Ero ancora troppo
giovane per capire i segnali ma presto sapevo che le cose sarebbero
cambiate. Qualcuno mi chiamava predestinata ma io sapevo che non era
così. Alla mia età non sapevo nemmeno cosa fosse il destino ma solo
che le cose accadevano. Era magia, proprio come il sole che sorgeva e
che da solo riusciva a dipingere tutto quello che vedevo attorno a
me, quando io non riuscivo ad afferrare un solo albero con la mia
piccola mano. Mia nonna diceva che presto avrei saputo fare molto di
più, ma io non ci credevo perché ogni volta che cercavo di
chiederle qualcosa mi rispondeva: “arriverà anche il tuo tempo.”
Io non capivo quale sarebbe stato il mio tempo né quando sarebbe
arrivato, ma nonna Ester si limitava a voltarmi le spalle mentre
impastava la farina. Quella mattina ero rientrata dentro la cucina
dalle pareti bianche di calce fresca perché fuori faceva troppo
freddo per restare. Mia nonna era già sveglia da parecchio e due
fuochi ardevano nel forno a legna addossato alla parete e in una
grande “cuppa” sotto il tavolo rozzo al centro della stanza. La
sensazione di calore era molto forte in quell’ambiente così
piccolo, ed era sempre piacevole, soprattutto la mattina. In piedi,
posai i gomiti sul tavolo e affondai il mento tra le mani, scrutando
quel viso di donna non ancora rugoso eppure già incorniciato dal
fazzoletto nero da lutto, i cui lembi in quel momento nonna Ester
portava annodati sopra la testa. Neppure uno dei suoi capelli grigi
sfuggiva a quello strano gioco di nodi: quei capelli quasi del tutto
bianchi, ormai lunghissimi, che non avevo mai visto incorniciarle il
volto. Nonna Ester, da che io ero nata e forse da molto tempo prima,
li teneva strettamente intrecciati e rigirati a formare una crocchia
sopra il capo: per questo motivo il suo fazzoletto assumeva una forma
a punta e la sua testa appariva leggermente allungata. Solo le sue
mani tradivano una vita di stenti, una vita di lavoro duro,
soprattutto da quando nonno Raffaele era morto, lasciandola vedova
con dodici figli. Nonna Ester aveva solo quarantaquattro anni allora
eppure solo le sue mani, dalle dita lunghe e affusolate sebbene non
troppo sottili, mostravano le sofferenze patite. La conoscevo bene,
ai miei occhi di bambina non c’era al mondo donna più saggia. Nel
mentre che la osservavo smise di impastare e si strofinò le mani
imbiancate di farina nel canovaccio che portava allacciato in vita,
alla stringa del grembiule. Si fermò solo un attimo a guardarmi e
notando il mio sguardo assorto mi redarguì colpendomi bonariamente
con un angolo dello strofinaccio. “Embè non hai niente da fare?”
mi domandò in tono burbero “già che sei lì, và a tirarmi su un
secchio dalla fontana.” Non volevo farmi ripetere le cose quando
era lei a chiedermele e sebbene avessi compreso che il tono del suo
rimprovero era bonario, mi affrettai ad obbedire. Nonna non
sopportava di vedermi in ozio e io non volevo vederla contrariata.
Un sottile strato di ghiaccio si era
formato durante la notte sulla superficie dell’acqua e dovetti far
calare con più velocità il secchio per riuscire a romperlo.
Nonostante le mie deboli braccia di bimba, ero abituata a quel lavoro
e non mi pesava svolgerlo. Mi era stato insegnato a portare il
secchio in equilibrio sulla testa, proprio come facevo con il bucato
quando accompagnavo nonna a lavare i panni al lavatoio. Tolsi quindi
dalla tasca del logoro grembiule grigio il cerchio di stoffa che
usavo per tenere ben fermo il secchio e lo sistemai con cura sul
capo, quindi rientrai in casa, premurandomi di non rovesciare nemmeno
una goccia d’acqua. Una volta dentro la cucina, ne versai una buona
dose su un pentolino che nonna aveva posizionato su un treppiede sul
fuoco, affinchè si riscaldasse perchè sarebbe servito a preparare
il the per la colazione. Nessuna di noi parlava mentre svolgevamo i
nostri compiti.
Quella della pulizia mattutina era
un’abitudine a cui mia nonna non voleva che mancassi e davanti al
camino c’era sempre la tinozza di ferro dentro cui mi infilavo per
fare il bagno. Un tempo era stata ricoperta di smalto blu, ma ora
appariva scrostata in più punti e di tanto in tanto spuntava fuori
un pezzetto di ruggine. Eppure io la trovavo comoda, anche se adesso
che le gambe si erano allungate dovevo piegarmi in tre parti per
starci tutta. Nonna Ester stava dando la forma ai piccoli pani che
avrebbe infornato di lì a poco. Aveva mischiato all’impasto dei
pezzi di carne di maiale e adesso sistemava le pagnotte sulla lunga
pala da forno. Ne aveva fatto almeno una ventina di chili perché
domenica si sarebbe sposata Vincenza, la figlia della vicina, e nonna
gliene avrebbe regalate un po’. Non era il pane degli sposi, questo
nonna Ester lo sapeva bene, ma d’altronde a quello ci avrebbero
pensato le parenti della sposa, e poi Tzia Maria le aveva chiesto
apposta il favore di preparare quel tipo di pagnotte per la figlia.
Nonna si impegnava molto per i vicini.
Capitava spesso che qualcuno venisse a cercarla anche alle ore più
strane, e non importava che fosse giorno o notte, venivano lo stesso.
A volte arrivava gente anche dagli altri paesi, a piedi o anche a
dorso d’asino. Nonna però si muoveva sempre da sola. Usciva quando
era più buio, anche se d’inverno bastava che fosse anche sera
tardi: prima però badava che io fossi profondamente addormentata.
Sapevo che mi voleva bene e sapevo anche che doveva farlo, ma non
capivo il perché capitasse tanto spesso che dovesse lasciarmi sola
in casa la notte. A volte facevo solo finta di dormire e restavo
sveglia ad ascoltare il rumore della porta che si chiudeva e quando
capivo che era uscita, mi alzavo dal letto e correvo verso la
finestra per osservare dove andasse. Ma non riuscivo a vedere niente,
perché la strada non era illuminata, e dopo poco mia nonna, sempre
di nero vestita e collo scialle tirato sul capo, veniva inghiottita
dalle tenebre. La nostra casa non era grande, appena due stanzette,
una cucina ed un cortiletto, dove nonna teneva una decina di galline
e due oche. Il bagno era in un angolo del cortile, ma c’erano solo
un lavandino in cemento per lavare i panni ed un piccolo servizio, e
nient’altro. Vivevo con lei ormai da troppi anni per ricordarmi di
aver vissuto con altri prima, anche se avevo ben chiari i visi di
coloro che mi avevano messa al mondo. Tanto chiari da sapere che
nonna Ester in realtà non era la mia vera nonna, ma una sorella
della mamma di mio babbo, e che i miei genitori erano quelli che io
chiamavo semplicemente Tzia Gesuina e Tziu Migheli. Venivano spesso a
trovarmi, lei con una lunga gonna grigia, una giacchetta di lana nera
e il fazzoletto a fiori scuri sul capo. Aveva sempre ai piedi un paio
di scarponi da lavoro di almeno un numero più grande e teneva le
mani intrecciate sul davanti del grembiule. Tziu Migheli invece
indossava sempre un completo di velluto marrone, consunto e lacero ai
gomiti e man mano che il tempo passava i suoi pantaloni erano sempre
più corti, quasi che ogni tanto ne tagliasse un pezzo. Spesso era
scalzo, ma altre volte era arrivato con un paio di stivali di pelle
aperti però in punta. Entrambi mostravano una certa soggezione verso
nonna Ester, che li portava a scambiare con lei appena un paio di
cordialità prima di salutarmi e andarsene con la bertula (sacca)
piena di buone vivande. Erano lavoratori della campagna, e non
possedevano neppure un asino da quanto erano poveri. Nonna Ester non
parlava mai di loro, se non la volta in cui, snervata dalle mie
richieste, aveva cercato di spiegarmi che non potevano tenermi con sé
in quanto abitavano in una casetta troppo misera per poterci ospitare
tutti. Io non avevo posto altre domande e mi ero rimessa mesta mesta
a far di conto sul quadernetto. Non mi interessava approfondire la
questione, perché con la donna che mi stava allevando ci stavo più
che bene. Poi una notte tutto cambiò. Ricordo che pioveva molto, di
tanto in tanto qualche lampo squarciava il buio e il vento ululava
furiosamente, facendo sbattere sui vetri delle finestre i rami
dell’albero d’ulivo del cortile. Non c’era luna quella notte e
qualcosa mi inquietava. Era solo una sensazione però era come se
qualcosa dentro mi angosciasse. Nonna Ester si preparava per uscire,
ordinandomi di andare a letto, ma non riuscivo ad ubbidirle: avevo
paura. Mi ricordò che l’indomani mi sarei dovuta alzare presto per
dar da mangiare alle galline e l’idea del sonno mattutino mi
convinse a cedere. Eppure quella sensazione non scompariva. Quella
notte finsi di dormire, ma sotto le coperte portavo ancora gli abiti
da giorno. Quando nonna uscì aspettai qualche minuto prima di
alzarmi dal letto e poi infilai svelta lo scialletto di lana e cercai
di seguirla lungo la strada. Lei era davanti a me, appena un
centinaio di passi, confusa nel buio della notte per via degli abiti
neri. Portava come sempre lo scialle tirato sul capo e doveva avere
le braccia incrociate sul petto perché non ne vedevo le mani.
Camminava veloce, come se avesse fretta, ed io faticavo non poco a
starle dietro. Se l’avessi persa di vista mi sarebbe venuto il
panico, perché anche se conoscevo benissimo le strade per tornare a
casa, sapevo che la notte girava per le vie il carro dei morti. Nonna
passò davanti alla Chiesa di Nostra Signora della Neve e svoltò
nell’angolo a sinistra, in un viottolo stretto dal pavimento di
acciottolato. Conoscevo bene quel vicoletto, ci abitava Tzia Boicca,
la signora che mi regalava sempre le pardule. Nelle ultime settimane
aveva avuto il marito malato. Nessun medico era riuscito a curarlo e
Tziu Bobore era stato sempre peggio, tanto che nel giro di pochi
giorni non era riuscito nemmeno più ad alzarsi dal letto. Tzia
Boicca non aveva voluto che lo vedessi, ma dalle chiacchiere delle
vicine avevo capito che ormai non c’era più niente da fare. Nonna
Ester si infilò dentro la piccola porta di casa di Tzia Boicca senza
nemmeno bussare, perché l’uscio era già aperto. Dalle finestre
socchiuse si intravedeva solo il chiarore di una candela, tutto il
resto della casa non era illuminata. Cercai di scrutare attraverso
uno spiraglio della persiana ma per via dell’oscurità e della
pioggia non vidi nulla. Tesi l’orecchio ma dalla casa non giungeva
alcun suono. Poi d’improvviso l’uscio si riaprì ed io mi
appiattii spaventata contro il muro per non farmi scoprire. Nonna
Ester stava uscendo, sola, senza salutare e senza dire una parola.
Subito dietro di lei la porta si era richiusa senza rumore. Sebbene
l’amassi, in quel momento nonna mi sembrò l’essere più
spettrale che avessi mai visto. Portava il davanti dello scialle a
coprire naso e bocca e solo gli occhi spuntavano fuori. Aveva le
braccia incrociate sul petto, sotto lo scialle, quasi vi dovesse
tenere nascosto qualcosa. Non mi notò e camminò svelta verso casa
senza mai voltarsi. Per fortuna conoscevo una scorciatoia e riuscii a
rientrare prima di lei, anche se quando fu a casa nonna non venne a
controllare che io fossi a letto. Doveva essere notte inoltrata,
forse le due, eppure accese il fuoco. Incuriosita sbirciai dal buco
della serratura e vidi che vi gettava dentro un piccolo martelletto
di legno. Si era tolta lo scialle e stuzzicava le fiamme affinchè
bruciassero completamente quel piccolo arnese. Incapace di capire il
senso di tutto quello a cui avevo assistito quella notte mi rimisi a
letto e il giorno dopo mi costrinsi a trattenere la curiosità e a
non chiedere nulla a nonna Ester. Qualcosa mi diceva che si sarebbe
arrabbiata.
Dopo quella notte successe altre volte
che uscisse, ma io non la seguii più. Quando il mio tempo arrivò
trovai le risposte a tutte le domande. Ero stata paziente ed ero
stata premiata, anche se mai avrei voluto imparare ciò che mi era
stato insegnato.
Ma ora il momento di uscire è
arrivato. Diversamente da nonna Ester io controllo sempre che
Marianna dorma nel suo letto prima di indossare lo scialle. Non
voglio che la bambina si spaventi. Io non mi sono mai sposata e non
ho mai avuto figli perché forse questo era il mio destino. Una come
me non avrebbe mai potuto dare la vita. Avrebbe solo potuto compiere
atti pietosi. Ero una predestinata. Ma adesso è il momento di
andare, è buio e anche se fuori non fa freddo devo comunque coprire
il capo con lo scialle. Rigiro il lembo attorno alla bocca, prendo su
matzoccu ed esco. Domani mattina la campana di Nostra Signora della
Neve avvertirà la popolazione che questa notte qualcuno è morto.